Gran Torino

Di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Christopher Carley, Bee Vang, Ahney Her (Amazon Prime)

Mariarosa Mancuso

Buon compleanno, Clint. Il più giovane novantenne del cinema, che con “Gran Torino” voleva uscire di scena, almeno come attore. Ex operaio alla Ford, reduce dalla Corea, vedovo e unico bianco in un quartiere affollato di musi gialli, Walt Kowalski somiglia all’ispettore Callaghan, invecchiato e ringhiante dopo una vita da poliziotto. Uno che non capisce come mai le auto americane si vendono sempre meno, non si rispettano più gli anziani, nessuno insegna ai giovani maschi a comportarsi da maschi. E un po’ allo sceriffo Bell di “Non è un paese per vecchi” (il romanzo di Cormac McCarthy, non il film dei fratelli Coen). Spaesamento, e sensazione di essere rimasto solo a difendere il fortino: per Walt, la casetta con il portico dove bere la birra e una fiammante Gran Torino del 1972 in garage (la macchina della serie “Starsky & Hutch”, ma questa è verde). E’ diverso il linguaggio. L’ex operaio di origine polacca ha un ricco assortimento di insulti razziali, e quando li ha finiti ne sforna altri. Quando i figli – debosciati che guidano auto giapponesi, orrore! – gli fanno regali da vecchio, Walt-Clint grugnisce e li fulmina, gettando nella spazzatura il telefono con i tasti giganteschi e i pieghevoli delle case di riposo. Quando i vicini Hmong (stavano con gli americani ai tempi della guerra in Vietnam, quasi tutti espatriatri per salvare la pelle) cucinano con le spezie e gli fanno ciao con la manina, partono altri moccoli. Quando Tahao, il figlio dei vicini, tenta di rubargli la Gran Torino, per non sembrare una pappamolla agli occhi della gang, scoppia la guerra. Vera: Walt non sopporta chi gli pesta il prato, figuriamoci chi gli tocca l’automobile. Poi comincia a sospettare che la famigliona della porta accanto sia più rispettosa delle vecchie usanze, dei valori americani e del cibo cucinato rispetto ai suoi antipatici figli. E mette il naso fuori dal fortino.

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