(foto Ap)

il ritorno

Torna Kevin Rowland con i suoi Dexys, un disco in forma smagliante dopo i fasti degli anni 80

Stefano Pistolini

L’album si chiama “The Feminine Divine”: un carosello di idee e soluzioni, nel quale non c’è una sonorità dominante, ma un flusso di generi, tanti quadri di una pirotecnica esibizione che contempla un fantastico attacco r’n’b, momenti funk, tastiere house, perfino melodrammi formato ballad

Kevin Rowland è un genio. Per esperienza personale aggiungiamo che è una delle persone più antipatiche che ci sia capitato d’incontrare, nevrotico, egotico, superbo, assurdamente auto-riferito. Pazienza. Quanto a istrionismi, poi, non è una novità che – anche adesso che è alla vigilia dei 70 anni – a lui piaccia vestirsi in abiti femminili, con un’inclinazione per lo stile anni Venti, e senza trascurare gli accessori, reggicalze compresi. Un gesto liberatorio reso pubblico a fine anni Novanta, mentre provava a recuperare da una pesante dipendenza della cocaina, probabilmente sospinto da qualche strizzacervelli a realizzare fino in fondo i suoi desideri. Fu così che sulla cover dell’album “My Beauty” (1999) si presentò con una foto che lo faceva sembrare sua zia. I suoi fan, tra i quali modestamente ci iscriviamo, non ebbero nulla da ridire o di cui sorprendersi perché d’altronde, l’arte del travestimento, o le sliding doors tra un’identità e l’altra, è sempre stata la cifra della sua personalità artistica

 

Nel caso comunque non abbiate familiarità col personaggio in questione, ecco qualche dato in più: la carriera musicale di Kevin Rowland – di famiglia proletaria – prende le mosse, dopo un fallimentare apprendistato come parrucchiere, nell’area di Birmingham quando corre il 1978 e impazza il punk. A lui di quella musica non gliene importa nulla, ha in mente qualcosa di assai diverso. Forma una band chiamata Dexys Midnight Runners, dove Dexy sta per Dexedrina, l’anfetamina all’epoca popolarissima al punto da generare tanti “midnight runners”, ovvero giovanotti che ballavano tutta la notte, senza stancarsi mai. Il suono del suo gruppo era un white soul con tanto di sezione fiati e con una vocazione dance in totale controtendenza rispetto al disperato romanticismo punk. Il look di Kevin e compagni, poi, era una prodigiosa rielaborazione dei fassbinderiani marinai di “Querelle de Brest”, ovvero portuali del nord ad alto tasso erotico, maglietta a righe e cappello di lana calato sugli occhi. La cosa funziona: nel 1980 “Geno” sale al primo posto delle classifiche britanniche dei singoli e quando Kevin s’inventa la prima rivoluzione del suo progetto – via i fiati, dentro gli archi, via i portuali, dentro i villici Old England – il gioco trasformistico comincia ad apparire evidente, e comunque viene coronato da un altro successo strepitoso come il singolo “Come On Eileen” e il relativo album “Too-Rye-Ay”, peraltro lo scorso anno rieditato in occasione del 40esimo anniversario della prima pubblicazione in versione remixata da Rowland (“Too-Rye-Ay As It Should Have Sounded”, per chiarire che lui non era mai stato contento della produzione originale). Da lì, però, Kevin imbocca un tunnel: eccessi chimici, problemi psichici, un dentro e fuori dalla musica che in effetti era soprattutto un “fuori”, a parte un paio di dignitosissimi album pubblicati nel corso degli anni

 

Infine, in questa calda estate del ’23 ecco la vera rentrée di Rowland e dei suoi Dexys in forma smagliante, incluso Jim Paterson, da sempre suo partner nella stesura dei pezzi. L’album si chiama “The Feminine Divine”, ruota vagamente attorno a un concept di venerazione del femminile come essenza del mondo e alla sua cangiante, ora eccitata relazione con le donne. Ma quella che è sbalorditiva è la qualità dei pezzi in scaletta e le performance vocali con cui Kevin li affronta: un carosello di idee e soluzioni, nel quale non c’è una sonorità dominante, ma un flusso di generi, tanti quadri di una pirotecnica esibizione che contempla un fantastico attacco r’n’b, momenti funk, tastiere house, perfino melodrammi formato ballad, con tanto di inserti parlati, come quelli che faceva Serge Gainsbourg ai suoi tempi. Il gruppo che lo accompagna suona a meraviglia, a cominciare dai coristi che sovente dialogano con lui e l’ascolto ha la corroborante virtù di un viaggio tra le onde di una grande intelligenza musicale. Soprattutto c’è lui, Kevin, reduce da sette anni di silenzio assoluto, con la faccia imbellettata e perennemente imbronciata, gli abiti deliranti che deve avergli confezionato uno stilista al colmo dello stress, dopo averne ascoltato le visionarie richieste. Il tutto è vaudeville, è rock, è cinema, è soprattutto quel versante dello star system non autorizzato, autarchico, orgoglioso, stizzoso, che può essere ancora capace di stupirci ed elettrizzarci. Solo per questo motivo siamo disposti a sopportare un matto come Rowland e, in sostanza, a pendere dalle sue labbra. Mentre osserviamo con molta indulgenza i clamorosi servizi fotografici con cui sta battezzando questo suo ritorno in scena, lui, che da ragazzino gli amici della gang avevano ribattezzato Mary Quant. 

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