Foto tratta dal profilo Instagram della Lovegang 126

Il disco della Lovegang 126: rap vecchia scuola, armonie romanesche e intimismo

Stefano Pistolini

"Cristi e Diavoli" (di Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Drone126, Asp126, Ugo Borghetti e Nino Brown) esce il 21 aprile ed è una dichiarazione d’amore alla musica con cui sono cresciuti e alla città in cui si sono persi

C’è stato un momento, oltre una dozzina d’anni fa, in cui le rap crew erano l’espressione più interessante di associazione creativa underground, per chi non avesse voglia di mercato, di mainstream, magari d’impegno e forse, soprattutto, non avesse per niente voglia di crescere. Le ascendenze vanno ben più su, fino alle storie anni Novanta di “In The Panchine”, messa su nei garage da quelli che sarebbero diventati Piotta e Cor Veleno e Colle der Fomento. Roba eminentemente romana (e “coatta” si diceva al tempo, per distinguerla da chi voleva ancora usare la musica per fare letteratura), a cui Milano rispose per le rime con il Club Dogo di Guè, Jake La Furia e Marracash, mentre il meridione a suo tempo aveva fatto suonare le sue campane con il Sud Sound System. Idee antiche che trovarono trionfale evoluzione nel TruceKlan, di nuovo nella Capitale: brutti e cattivi, rassegnati e disperati, Noyz Narcoz, Chicoria, Metal Carter, Gel e soci misero su disco – e soprattutto in memorabili live – l’impresentabilità come carta d’identità, la rivendicazione del perdente e una terribile fascinazione romantica. Altri tempi, dissolti davvero, tra una pandemia, il botto trasversale e provinciale della trap, i morti di Corinaldo e le mani di Sanremo che s’allungavano su questo suono, mentre i talent show diventavano pascolo di rapper rabboniti e addirittura – suprema contraddizione – trapper impegnati e un po’ pensosi. 

     

    

Che resta di quegli anni 00, 10 e 20, adesso che siamo andati ciecamente oltre e che la visibilità sociomusicale è davvero assai ridotta? Una risposta decente è che resta la Lovegang 126, crew romana di trentenni, tutti già abbastanza famosi nelle radio e su Spotify, che semplicemente rinunciano (si rifiutano?) ad andare ciascuno per la strada della propria carriera solista e, quasi fuori tempo massimo, mantengono in piedi uno spirito – lo stesso nato attorno al 2010 quando erano pischelli e passavano i pomeriggi sui 126 scalini della Scalea del Tamburino che separano Trastevere da Monteverde, progettando (e rimandando) un progetto musicale che li rappresentasse, mescolando il suono rap della vecchia scuola, mai minimamente rinnegata, e tutte le armonie che a Roma non smettono di aleggiare, da Califano a Gabriella Ferri, quasi fossero un patrimonio molecolare privo di copyright. Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Drone126, Asp126, Ugo Borghetti e Nino Brown poi si sono fatti, su gradi diversi, una reputazione come voci individuali, ciascuno declinando a suo modo una poetica comune, confusa e vasta, dove tra vizi anche estremi, debolezze, sconfitte e mai ’na gioia, il perenne leitmotiv è rimasto sempre quello della fratellanza, delle relazioni amicali che vengono prima di tutto, in una visione in cui di botto spariscono i social e le intelligenze artificiali e sul tavolo restano le chiacchere, le confessioni, le notti tirate tardi e una distesa di Peroni vuote.

   

Con una sincronia che alla grandi crew del passato è sempre risultata difficile, Lovegang126 trova ora lo slancio per pubblicare finalmente un album collettivo, “Cristi e Diavoli” (fuori il 21), autoprodotto e fatto insieme, dichiarazione d’amore alla musica con cui sono cresciuti e alla città in cui si sono persi. Ecco perciò un cantico dell’appartenenza dal forte odore retrò, antologia del vocabolario neo-romanesco che evita le sbruffonate della trap, il maschilismo, la fissa per le griffe e la grana e invece celebra un’estetica morbida e affettiva, intima e rinunciataria, sottilmente furba per come intercetterà il sentimento di tanti coetanei diversamente giovani, che pure vivono con la sensazione di aver perso il tram, incapaci di focalizzarsi sugli obiettivi e i famigerati “step”.

   

Per loro e per chi ha voglia di “portare l’amore in Italia”, la Lovegang degli “sbandati con la luna di traverso” rischia di diventare la band di riferimento e un prontuario filosofico. Da parte loro l’autocompensazione per il rifiuto di cercare altri riconoscimenti in un panorama pop che non apprezzano, transita attraverso la consapevolezza d’essere, fin d’ora, già un classico, come rappano nell’omonima cantilena: “Un classico come i tramonti al Foro / I baci nei parchetti ed i pacchetti di Marlboro /  un classico come ‘e serrande abbassate ad agosto / Come quando ti dico ti amo ma sto ‘mbriaco”. Certo, il rap dell’emarginazione e dello scandalo è lontano anni luce (capitò lo stesso in America quando esplose la crew afro-middle class Odd Future, ricordate?), l’amore e il localismo si mettono al centro di tutto. Ma in fondo non è proprio il rap tout court a essere lontano anni luce?

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