Una sfida in musica

Spotify ha salvato il mondo della canzone. La produzione di contenuti è il prossimo banco di prova

Marco Bardazzi

La piattaforma svedese rappresenta il 20 per cento dei ricavi dell’intero settore discografico, ma ha bisogno dei podcast e della produzione di contenuti per continuare a crescere, anche se rischia di trovarsi alle prese con gli stessi guai che stanno avendo i social media

Sette miliardi di dollari. E’ la somma record che Spotify ha versato ai protagonisti dell’industria discografica nel corso del 2021 ed è un dato che racconta tante cose. Prima tra tutte: venti anni dopo aver ucciso il cd e rischiato di mettere in ginocchio il mondo della musica, internet ha trovato il modo di renderlo ancora più ricco di prima.

Dalla “download generation” allo streaming, passando per l’iPod, la ricostruzione del valore della creatività musicale nel corso dei primi due decenni del secolo è una storia di successo che riguarda tanti settori alle prese con la rivoluzione digitale. Primo tra tutti quello del cinema. Per la prima volta nei novantaquattro anni di storia degli Academy Awards, l’Oscar per il miglior film quest’anno è andato a un film (“CODA - I segni del cuore”) prodotto da una società di streaming, Apple TV+, inseguita dalla rivale Netflix. 


L’interrogativo adesso è se l’industria dello streaming stia avvicinandosi al suo picco e quale sia il suo futuro. Spotify è un ottimo osservatorio da questo punto di vista. Un po’ perché follow the money è sempre stata una buona regola per svelare tanti fenomeni e i soldi in questo momento passano a fiumi dalla piattaforma musicale svedese, alla quale va riconosciuto il merito della trasparenza sulle cifre relative alla distribuzione dei ricavi. A questo va aggiunto che follow the music è un altro criterio da sempre importante per capire trend culturali e perfino finanziari ed è una regola che non cambia neppure nell’era digitale. Anzi.  Partiamo dai soldi. I sette miliardi di dollari versati nel 2021 da Spotify all’industria musicale sono un balzo in avanti importante rispetto ai cinque miliardi dell’anno precedente. La piattaforma svedese rappresenta attualmente il 20 per cento dei ricavi dell’intero settore discografico, che si alimenta anche di altri servizi di streaming, di vendite di brani e album online e offline, di merchandising e ovviamente di concerti, in ripresa dopo la gelata della pandemia. 

Venti anni fa, i diritti d’autore legati alle vendite dei compact disc erano poco meno di tre miliardi di dollari. Il settore subito dopo era entrato in una crisi profonda da cui sembrava destinato a non riprendersi e dopo la recessione del 2008-2009 la somma era scesa molto al di sotto dei due miliardi di dollari. Poi è arrivato il boom dello streaming, mentre sparivano i cd, e adesso le major discografiche e i loro artisti ricevono più di quattro miliardi di dollari di royalties da servizi come Spotify. Cresce anche l’ascolto complessivo di musica e cresce il numero di artisti che fanno soldi: sempre secondo i dati diffusi da Spotify, nel 2021 per la prima volta sono stati più di mille gli autori che hanno prodotto oltre un milione di dollari di ricavi sulla piattaforma.


Uno scenario che sembrava impensabile nel 2002, due decenni fa, quando l’industria musicale era riuscita a far sparire definitivamente quella che appariva una minaccia e che invece, con il senno di poi, è stata la sua fortuna: Napster. Oggi ricordata solo dagli appassionati di tecnologia, era una società creata nel 1999 da due ragazzi brillanti e fuori dagli schemi, Shawn Fanning e Sean Parker, per permettere a tutti di condividere liberamente la musica in formato digitale mp3. Napster era un software che ha anticipato in un certo senso la sharing economy e lo streaming. Attraverso un pionieristico sistema di condivisione via internet dei file che si trovavano sui loro pc, permise in poco tempo ai giovani di tutto il mondo di scambiarsi musica gratuitamente e via web come un tempo si scambiavano le musicassette pirata.  

Nel 2000, poco più di sei mesi dopo la nascita di Napster, il servizio aveva già 20 milioni di utenti. Un anno dopo il debutto, gli scambi erano arrivati a 14 mila canzoni scaricate ogni minuto. Quando la potente organizzazione discografica Riaa (Record Industry Association of America) cominciò a realizzare la portata di quello che stava avvenendo, era già troppo tardi: non c’era più un singolo brano musicale che non fosse disponibile, gratuitamente, su Napster. La reazione fu dura, a colpi di azioni legali da parte degli artisti (ad aprire la strada furono i Metallica e Dr. Dre) e richieste di risarcimenti danni e alla fine Napster fu fatto sparire. Ma era troppo tardi per cambiare il corso degli eventi. La musica si era ormai separata dal supporto in cui era stata ingabbiata, cd o vinile, e non intendeva rientrarci. Si aprì una stagione di pirateria, download illegali, guerre a colpi di leggi e denunce. 
In realtà ciò a cui Napster ha aperto la strada è l’ecosistema abbastanza ordinato del download e dello streaming che abitiamo oggi (al netto della persistente pirateria), nel quale i cantanti e le etichette sono ben lontani dall’essere in bancarotta. A rimettere ordine nel caos è stata in buona parte la Apple di Steve Jobs, che negli stessi anni del boom di Napster era riuscita a rimettere il genio della musica nella lampada da cui era fuggito, dando una nuova casa ai file digitali mp3: non più cd e negozi di dischi, ma iTunes e iPod. 

Poi era cominciato il decollo del fenomeno dello streaming. Netflix si era spostata in questo settore, dopo essere stata per anni una società che faceva soldi spedendo a casa i film in dvd via posta e corriere. Anche il mondo del video aveva così cominciato a separarsi dai propri supporti, mandando ben presto in rovina chi viveva di dvd (ricordate la catena dei negozi Blockbuster?) e spingendo verso lo streaming realtà che erano abituate a far soldi con supporti fisici per i film o la musica, come Disney o Amazon. 

Ad accelerare tutto era stato il boom dei social media. Nello spettacolo dell’intervallo del Super Bowl del 2004, la cantante Janet Jackson era rimasta con un seno scoperto durante lo show con Justin Timberlake e gli adolescenti dell’epoca erano andati a caccia del video su internet. Frustrato dalla difficoltà di trovarlo e condividerlo in rete, un giovane ingegnere americano con famiglia del Bangladesh, Jawed Karim, si mise a costruire un software di condivisione dei video che lanciò nel 2005 insieme a due amici, Chad Hurley e Steve Chen. Si chiamava YouTube e come Napster avrebbe cambiato il mondo. Un anno dopo Google lo acquistò per 1,65 miliardi di dollari. 

Oltre che una piattaforma video, YouTube è stato fin dall’inizio un social media e ha ben presto unito le forze con altri servizi nati nello stesso periodo: Facebook (2004), Twitter (2006) e tutti gli altri. Quando nel 2006 lo svedese Daniel Ek ha cominciato a costruire Spotify, per lanciarlo poi nel 2008, l’ecosistema era pronto per trasformare lo streaming della musica da un pericolo per il copyright, come era stato all’inizio del secolo, a una nuova esperienza che ha moltiplicato – grazie ai social – la platea degli utenti e, nel tempo, anche i ricavi, superando quelli dell’epoca dei supporti fisici (cd, vhs, dvd). 


Spotify ha permesso anche una democratizzazione della musica e l’esplosione di un gran numero di talenti che difficilmente avrebbero trovato la strada del successo passando dagli uffici delle major. Nel 2021, oltre ai mille autori che hanno superato la soglia del milione di dollari, ce ne sono stati oltre 50 mila che hanno prodotto almeno 10 mila dollari a testa di ricavi solo su Spotify e un quarto di questi sono cantanti e band indipendenti e senza etichette.  Da qui a dire però che il futuro sarà democratico e ricco di iniziative non controllate dalle major, ce ne passa. Già nel 1999, quando è esploso il fenomeno di Napster, c’era un mondo di utopisti della rete (come quelli che diedero vita al “Cluetrain Manifesto”) che prefigurava un web libero ed egalitario. 
Adesso si sta ripetendo qualcosa di simile con gli scenari di quello che definiamo “Web 3” e con le prospettive dei vari metaversi in cui vivere esperienze in realtà virtuale o aumentata. La blockchain e le criptovalute stanno alimentando l’idea che si possa immaginare un mondo artistico dove prevarranno l’iniziativa personale e gli “smart contract” gestiti direttamente, senza le mediazioni delle grandi piattaforme o delle grandi realtà discografiche e cinematografiche. Gli Nft (Non-fungible Token) sarebbero, in quest’ottica, un assaggio del nuovo scenario e non è un caso che questi nuovi oggetti digitali proliferino al momento soprattutto nel mondo artistico. 


Ma il mondo dei contenuti è troppo ricco per pensare che gli attuali colossi della rete stiano fermi a guardare. Non si tratta solo della trasformazione di Facebook in Meta, per esplorare le potenzialità del metaverso. C’è molto di più e riguarda proprio e soprattutto l’ecosistema dello streaming. 
Le piattaforme video sono un chiaro esempio. Da quando Disney ha cominciato a comprare un po’ tutto quello che trovava e a portarsi in casa i diritti d’autore di mondi come Marvel o Star Wars, i rivali hanno capito che gestire un business con i contenuti di altri non è alla lunga praticabile. E così Netflix, Amazon e Apple si sono messe a produrre film, a un livello qualitativo così alto da aver conquistato Hollywood e quest’anno anche gli Oscar.  

Per il mondo audio, una sfida analoga si sta aprendo per i podcast. Realtà come Spotifiy rischiano a loro volta di non poter crescere più di tanto senza mettersi a produrre contenuti, invece di essere solo piattaforme di distribuzione di entertainment realizzato da altri. Nel caso della società svedese però non si tratta di produrre album, ma di scendere sul terreno dell’audio di informazione e di intrattenimento. I podcast sono ancora oggi un terreno relativamente libero e indipendente, chiunque in teoria può crearne uno e caricarlo su una piattaforma, anche se la differenza ovviamente la fanno i prodotti professionali.  

Spotify ha bisogno di podcast per crescere, ma rischia di trovarsi alle prese con gli stessi guai che stanno avendo i social media. Lo ha dimostrato in queste settimane il caso di Joe Rogan negli Stati Uniti. Spotify ha cominciato a comprare i diritti esclusivi per programmi in podcast di grande successo e tra questi figura lo show di Rogan, seguitissimo. Il problema è che l’autore è controverso e negli ultimi tempi si è messo a fare il No vax e a diffondere disinformazione sul Covid. Alcuni artisti, guidati da Neil Young e Joni Mitchell, hanno deciso di ritirare la propria musica da Spotify per protesta contro Rogan e la società svedese si è improvvisamente trovata su un terreno che Mark Zuckerberg e Google conoscono bene: quello della censura di contenuti e della necessità di creare modalità per valutare quello che viene pubblicato. In pratica, passare dall’idea di essere una piattaforma agnostica e non responsabile di quello che fanno gli utenti, a diventare una vera media company. Con tutte le complicazioni che appartengono a chi vive di giornalismo e informazione. 
I podcast e in generale la creazione dei contenuti saranno il test su dove andrà il mondo dello streaming audio. L’atterraggio potrebbe essere semplicemente quello di fusioni e incorporazioni dentro gli attuali colossi della rete: se YouTube finì per essere ingerito da Google, non è escluso che Spotify finisca per essere mangiato da un altro player della Silicon Valley. 


Ma nel mondo dell’entertainment digitale le cose sono sempre più complesse di come appaiono e non è escluso che alla fine di un ventennio di trasformazioni epocali, a trarre beneficio dalla rivoluzione non siano vecchi player dell’èra analogica. Ce n’è uno, per esempio, che sta vivendo una seconda giovinezza e si candida a protagonista anche negli anni Venti: è la Sony, che a 76 anni suonati incassa successi ed è arrivata a un valore di 157 miliardi di dollari.   

Il punto di forza del colosso giapponese è il fatto che in un mondo ibrido, ricco di contaminazioni tra contenuti digitali diversi, pochi possono vantare di essere altrettanto ibridi come Sony. Una realtà che continua a fare soldi con film campioni d’incasso come “Spider-Man” o con serie televisive dalla giovinezza eterna (su Netflix negli Usa la serie più vista continua a essere “Seinfeld”, gioiello degli anni Novanta di cui Sony raccoglie ancora i diritti tv). Spotify versa a Sony centinaia di milioni per le royalties legate ai cantanti della sua scuderia e dovrà farlo a lungo, visto che giganti come Bruce Springsteen e Bob Dylan hanno ceduto nei mesi scorsi a Sony i diritti per tutti i loro brani. E mentre realtà come Microsoft, Facebook, TikTok o Amazon si affannano a entrare nel mondo del gaming, considerato l’anticamera per le meraviglie del metaverso, Sony si gode i molti anni di vantaggio accumulati con il successo planetario della propria PlayStation. 

Chissà che la creazione distruttiva dello streaming, innescata dai ragazzi terribili di Napster, non finisca ironicamente per tornare ad arricchire anche nell’era del metaverso le vecchie major che aveva messo in difficoltà.

Di più su questi argomenti: