il foglio della moda
“Questa non è una rivoluzione: è entertainment”. Come mettere allegria nel metaverso
La realtà violenta di questi mesi ci aveva resi diffidenti sulla prima fashion week a Decentraland, che già come toponomastica non è il massimo e che ci è parsa noiosetta. Poi abbiamo fatto una chiacchierata con Veronica Etro. Non ci siamo convinti, ma il suo riferimento a Mary Poppins e ai disegnini escapisti di Bert ci è piaciuto
Invitati alla prima fashion week sul metaverso, dal 24 al 27 marzo scorsi, non avevamo niente da metterci. Letteralmente. Perché se non sei un habitué con residenza virtuale a Decentraland (che, diciamolo, come nome di paradiso tecnologico non è proprio invitante), agli invitati per gli eventi di moda lì catapultati come semplici “guest”, la scelta su come vestire il proprio avatar è decisamente ridotta, anzi drasticamente malinconica. Compongo la mia miniatura virtuale con quello che riesco a trovare di decente, pantaloni e t-shirt neri a manica lunghe: unico accessorio possibile, un paio di occhiali da sole. Lo streetstyle a disposizione è veramente terribile. Che farci? La Silicon Valley si è affrettata ad abbracciare la moda come pietra angolare del suo nuovo e appariscente sviluppo: molto rumore è stato fatto per l'avatar di Mark Zuckerberg che si scambiava le possibilità del guardaroba nel video dimostrativo del metaverso che la sua azienda ha pubblicato a fine ottobre per annunciare il loro rebranding come “Meta”.
Per fortuna, un breve tutorial ci informa sui fondamentali dell’onomastica: sbattuti a Genesis Plaza, il punto geograficamente centrale da cui si capisce come spostarsi, dirigere lo sguardo o accedere alla mappa dei luoghi, la cui architettura – e su questo concordiamo con Veronica Etro, uno dei cinquanta brand di lusso e marchi digitali, che stanno movimentando il luogo con sfilate, pop-up store, presentazioni, concerti, after party e installazioni cinematografiche – somiglia a quella di un gigantesco e un po’ semplicistico Monopoli. Del tipo: invece del Viale dei Tigli, c’è il Luxury Fashion District, progettato per assomigliare all’Avenue Montaigne di Parigi, che segna l’apertura della prima boutique virtuale di Etro, dove gli utenti potranno acquistare capi e accessori della maison sul sito o customizzare i propri avatar con gli abiti della capsule collection “Liquid Pasley”, una serie di modelli con il tipico décor di casa Etro ma molto più illanguidito e fluido, quasi un falso unito, “ideale per chi non ama le stampe troppe evidenti”: una parte di questi rimpinguerà a pagamento l’asfittico guardaroba messo a disposizione su Decentraland (“ma agli utenti attivi, che pagano, regaleremo un look digitale”, e meno male), mentre un’altra parte, “reale”, verrà messa in vendita con un grande evento nella boutique di Via Montenapoleone a Milano, e lì non vediamo l’ora di andare. La sensazione, saranno le contingenze, sarà l’umore collettivo non esattamente alle stelle, sarà che la realtà violenta del mondo ci viene sbattuta in faccia ogni secondo e in diretta, è quella di chiedersi se veramente ne sia valsa la pena. “Devo ammettere che anche noi, all’inizio, avevamo molti dubbi e coltivavamo un po’ di diffidenza, poi ci siamo detti: perché no?”, ammette conciliante Veronica Etro, figlia più giovane del fondatore e direttore creativo delle collezioni donna.
Sì, ma avete una storia fantastica, siete sinonimi di stampe, colori e profumi, chi ve l’ha fatto fare? “Lanciare la versione monocromatica del nostro Paisley, che per noi è già di per sé una cosa molto nuova, forse richiedeva un altro mezzo di comunicazione, più vicina ai giovani della fatidica Generazione Z: certo, ci rendiamo conto che siamo nel campo dell’entertainment, dell’esperienza ludica che magari ti strappa un sorriso. Del resto, io in famiglia sono sempre stata considerata la visionaria, quella che guarda più avanti di tutti: e se vogliamo vederla da un’altra prospettiva, Etro è anche sinonimo di viaggio, di movimento, del nomadismo tra culture e ispirazioni temporali diverse: questo ci ha convinto a provare a sfilare nel metaverso, dove abbiamo aperto anche una boutique virtuale in cui vedere gli abiti che si possono poi acquistare sul sito. È un modo differente di acquistare online, tutto qui, è un e-commerce animato: e parla con una che ama essere a contatto con le cose. Faccio il piccolo punto, ricamo per rilassarmi, tocco i tessuti, amo la concretezza”.
Veronica adora la scena del blockbuster di Walt Disney “Mary Poppins” in cui la tata fantastica e i bambini vanno al parco e trovano il simpatico spazzacamino Bert che disegna sul marciapiede splendidi paesaggi con i gessi: distese di alberi a perdita d’occhio e fiumiciattoli che scorrono placidi sotto a ponti colorati. A un certo punto Mary e Bert prendono per mano i bambini e saltano nel disegno, sparendo in una nuvola di colori. E nella scena dopo eccoli vestiti con abiti eleganti, a passeggio nei fantastici scenari che Bert aveva dipinto poco prima: “Ecco, io il nostro défilé me l’ero immaginato così”, sorride per poi lasciarsi alla confidenza che lei, ai figli adolescenti Lorenzo e Filippo, di tredici e diciassette anni, ha inibito l’uso dei social in modo quasi draconiano: “Non sono neanche su Instagram, il cellulare lo hanno avuto solo dopo i tredici anni, durante i lockdown hanno provato a giocare su Fortnite, ma per fortuna si sono stufati e anzi, un giorno me li vedo in casa in giacca e cravatta. “Ma siete matti?!”, ho detto loro e mi hanno risposto che non volevano trascurarsi, lasciarsi andare”.
Ecco: ma tra dieci anni, i loro coetanei che idea avranno del lusso, del prestigioso, dell’esclusivo, dell’eccellenza della qualità? “Tutto dipende dall’educazione: loro per fortuna sono già molto colti e conoscono molto bene quel che facciamo, ma del resto: il metaverso non è un’operazione di rottura con il passato esattamente com’è stato con i giovani non so, per esempio, nella Londra dei tardi anni Sessanta, con i figli dei fiori che si ribellavano ai padri, dei primi hippie cui mi sono ispirata per la collezione femminile di questa estate? Eppure, nulla è andato perso, delle tradizioni: si è solo evoluta la maniera di comunicarle e di interpretarle. Senza dimenticare che noi parliamo di “tecnologia” come se fosse un argomento nebuloso, astratto, vago: ma dietro c’è un enorme lavoro di persone specializzate che si stanno specializzando nella creazione di questi universi e quindi si creano ulteriori posti di lavoro, altre possibilità di guadagno che io, a quarantotto anni, non potevo neanche supporre esistessero”. Va bene, però nascere nella famiglia Etro significa anche vedere la luce in una wunderkammer di idee, di segni, di colori: “Beh, sì. Diciamo che la responsabilità di chi è oggi è genitore è anche quella di insegnare la linea di differenza tra la verità e la fantasia”.
Ma ora che la guerra stia mostrando a tutti la sua tragica realtà, non sembra ai brand di offrire una comoda via d’uscita in nome dell’escapismo da poltrona davanti allo schermo? “Sono molto sensibile a certi argomenti, e rispetto tantissimo la sofferenza vera che molte persone stanno attraverso e non le nascondo che, per un periodo, ho anche pensato di rimandare questo appuntamento che sì, come dice lei, è decisamente escapista, anche se, lo ripeto, dietro ci sono migliaia di persone che lavorano e promuovono questa nuova forma di trasmissione di un’industria così importante per l’Italia come quella dell’abbigliamento. Però poi ci siamo detti che, proprio perché viviamo in momenti così difficili, dove i giovani tendono a rinchiudersi nelle loro camerette, a non uscire di casa per paura, a rinunciare alla compagnia degli amici, forse offrire una piccola – e sottolineo “piccola” - parentesi colorata, non è per forza un male. Anche perché l’unica via d’uscita a certe situazioni è proprio coltivare la bellezza, anzi la bellezza della differenza e della diversità: e in questo certe esperienze virtuali, che sono ancora agli inizi ma stanno già dilagando dall’arte agli spettacoli, offrono una serie di sfumature espressive da cui puoi attingere per approdare a un mondo nuovo. Vero, s’intende”.
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