© Roberto Masotti / Lelli e Masotti Archivio

Ricorrenza senza tempo

Come è nato 'La voce del padrone'. Il capolavoro di Battiato 40 anni dopo

Francesco Gottardi

Tra suoni e immagini, nel segno del Maestro “che ci fece sperimentare liberi e viaggiare con lui”. Parlano il tastierista e il fotografo del secondo disco italiano più bello di sempre. Un inedito tuffo in Studio, più che una guida all'ascolto

In principio le onde del mare, come ogni estate che si rispetti. Poi trenta minuti e poco più “di meraviglia, nata dal genio vulcanico di un uomo e dalla serenità del vero lavoro di squadra. La voce del padrone è un disco senza tempo”. Soprattutto oggi, a quarant’anni esatti dalla data di uscita – era il 21 settembre 1981 – e per la prima volta senza Franco Battiato. Ma della formazione originaria c’è ancora chi ricorda e rivive, fin dentro le vibrazioni dello Studio Radius di Milano: “Per registrarlo ci bastò solo qualche settimana”, racconta al Foglio Filippo Destrieri. Quell’album lo aprì lui, alla tastiera, con l’inconfondibile intro di Summer on a solitary beach. “La musica di un sintetizzatore Oberheim. Mentre per Bandiera bianca, il brano successivo, appena Franco me lo canticchiò ho sentito la necessità di usare l’Hammond, un organo elettrico dal suono molto caldo. In tutto 15 milioni di lire, spesi per gli strumenti impiegati nell’album: una serie di sonorità ricercate eppure spontanee. Il segreto di La voce del padrone è nella sua semplicità”.

  

A partire dalla direzione del Maestro. “Mi incoraggiava spesso: improvvisa, arrangia, lasciati andare. E così è successo, dagli svolazzi di note nel finale di Uccelli al motivetto di Sentimiento nuevo, il pezzo a cui mi sento più legato. Un susseguirsi di 'buona la prima', fra tutti noi”. La canzone simbolo? “Bandiera bianca. Almeno nelle intenzioni: è stato l’input attorno a cui si sviluppò il resto. Ma negli anni forse è emerso ancora di più Centro di gravità permanente. Tormentone vero”. Non solo per il pubblico: qualche tempo fa La voce del padrone si è affermato, dietro a Bollicine di Vasco Rossi, al secondo posto fra i 100 dischi italiani più belli di sempre, nella classifica stilata dalla rivista Rolling Stone. “Un raffinato connubio di pop e poesia”, sostiene la critica. “Un vinile farcito di segnali di vita”, ritocca Destrieri, giocando con l’omonima traccia numero sei, ancora, come se il fiume di citazioni e anglicismi all’interno dell’album stesso – Mister Tamburino, Lady Madonna e compagnia cantante – non finisse mai di scorrere. Secondo la sola logica del sogno, dell’immaginazione, dell’associazione libera ma mai casuale: “Uno dei grandi leitmotiv di questo 33 giri, studiato per ispirare. Con precisione, stile, estro umano”. E fin troppo entusiasmo, fuori gli aneddoti di lavorazione: “Quanti fili e cavi spezzati”, sorride il tastierista. “Mi sembra quasi di rivedere i cori dei Madrigalisti di Milano: tutti accalcati in quel piccolo studio, registrare diventava un incastro. Mentre Franco e Giusto Pio”, lo storico violinista e arrangiatore di Battiato, “erano talmente presi da strapparsi le cuffie ogni volta che si alzavano in piedi: si dimenticavano di toglierle dalla testa”.

   

È una musica che estrania. Dall’ascolto non lineare. Semmai una nebulosa – pure il repertorio spaziale era caro al Maestro –, il ciclo emotivo dell’anima umana: dall’idillio sulla spiaggia alla disillusione sociale – Quante squallide figure che attraversano il paese, Bandiera bianca – e amorosa – Da quando sei andata via / non esisto più, Cuccurucucù –, passando per la ricerca del centro di gravità permanente e da capo, Es un sentimiento nuevo / che mi tiene alta la vita. “I brani si sentono”, dice Destrieri: “Quasi te lo suggeriscono loro in che ordine andare. Noi abbiamo dato giusto qualche suggerimento, Franco ha fatto il resto. Compreso il titolo dell’album: senza tante dietrologie, un semplice richiamo all’etichetta discografica britannica His master’s voice”.

  

   

Altra storia nella storia: la copertina, fra le più riconoscibili della musica italiana, con l’autore fra le palme su una sdraio immaginaria. “Anche se in realtà è una sedia a dondolo thonet: risale ai primi primi del Novecento e ce l’ho ancora qui, a casa mia”: parola di Roberto Masotti, un’intera carriera a fotografare musica, da John Cage e Keith Jarrett fino al dietro le quinte di La voce del padrone. “Incontrai Battiato per la prima volta nel 1973, per uno shooting a Bologna”, si va alle origini di quello scatto. “Poi a Milano abbiamo frequentato gli stessi luoghi. Con gli stessi gusti musicali: mi interessava molto il lato sperimentale di Franco. E a lui la visualità attorno ai suoni, grazie anche alla sensibilità di un grafico come Francesco Messina, che curava tutti i suoi prodotti”. Così veniamo a quel 1981. “All’epoca per me fotografare voleva dire luce, soggetti su sfondi bianchi. E Battiato mi concedeva totale libertà creativa. Organizzavo la sessione, proponevo una serie di pose, la scelta finale spettava al grafico”. Sensazioni di allora? “Mentre scatti, se qualcosa ti soddisfa e ti riempie te ne accorgi subito. Ma l’epifania è un processo che avviene dopo: mai avrei potuto immaginare che il compositore seduto, sguardo assorto e occhiali da sole, sarebbe diventato un’icona”.

  

I meriti al 50 e 50 con Messina. “Non sapevo che avrebbe tolto la sedia a dondolo”, ammette Masotti, “riadattando il soggetto in quel set tropicale così suggestivo: la perfetta fusione tra eclettismo e immediatezza, che rispecchia il contenuto dell’album e gli diede spinta internazionale. Un blockbuster pazzesco, e al contempo un disco molto fotografico: evoca immagini come fa l’alta letteratura. Ma oltre agli immediati richiami esotico-mistici, trovo che il mondo di Battiato sia anche urbano, frenetico eco di metropoli”, e in effetti minatori bruni, vecchie bretoni e prostitute libiche sarebbero un bel bestiario da ore di punta nei vagoni del metrò.

   

  

Poi l’ultimo tocco estetico: “Il volto, l’atteggiamento dell’uomo. Aveva un’aura incomparabile”. Il fotografo si ferma un attimo. Riflette: “Proprio di recente ne parlavo con Messina: Franco era una di quelle persone che favorivano una collaborazione di successo non per particolare disponibilità, ma grazie agli spunti che pure involontariamente sapeva offrire di continuo. Ci teneva a coltivare solidi rapporti umani anche in studio. E a quel punto si mostrava incline alle battute, flessibile, informale. Un divertimento. Anche se dopo un po’ si svuotava, stanco, gli si arrossavano gli occhi. Era il segnale che aveva dato tutto”.

  

Destrieri rincara la dose: “Riservato, sì. Ma più solare e compagnone di quel che si pensi. Abbiamo avuto una fortuna sfacciata a lavorare con lui”. Eppure se ne ricordano in pochi. Stasera all’Arena di Verona ci sarà un maxi-concerto in onore del Maestro: il tastierista non è stato nemmeno invitato. “Una delusione e una carognata”, ora sfoga l’amarezza: “Mica pretendevo di suonare, ma esserci in platea mi sembrava naturale. Oggi purtroppo si fa un uso di Battiato molto commerciale: c’è chi preferisce chiamare Mahmood, Arisa, autori in voga che con la sua musicalità non c’entrano nulla”. Fra un mese Destrieri compirà 70 anni e continua a rendere omaggio a Franco, a modo suo. “Una tribute band che porto in giro per l’Italia dal 2005: l’ultimo spettacolo si intitola Il padrone della voce”. Riflesso incondizionato: eterno ritorno al disco.

   

E allora diteci come vi piace ascoltarlo, voi che ce l’avete regalato. “Con calma, quando se ne sente il bisogno”, consiglia il fotografo. “Magari ad occhi chiusi: lasciandosi andare a quel bianco abbagliante, quasi astratto, che emana”. Sul dove, il tastierista non ha dubbi: “Un’isola deserta, vicino all’eco di un cinema all’aperto. E quel posto esiste. Qualche giorno fa sono andato a salutare Battiato alla cappella di famiglia a Riposto, in provincia di Catania. Da lì, i suoi amici mi hanno portato dove Franco andava da bambino: si chiama Arena Giardino Cinema&Fantastico, a due passi dalla costa”. Le onde del mare, over and over again.

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