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La voce del padrone è un viaggio. Quel giro d'Italia di Franco Battiato

Giovanni Battistuzzi

Quarant'anni fa l'uscita del disco di maggior successo del cantautore siciliano. Uno strano e riuscito mescolio dell'Italia di quegli anni. Una novità nella sua discografia: "Diventò dada quando accostò la sua musica alla musica pop”

Mica vero che i viaggi debbano finire prima o poi, e in un tempo ragionevole. Possono continuare, raminghi e inusuali come erano iniziati, anche oltre il naturale scorrere della nostra permanenza sulla terra. Quello di La voce del padrone di Franco Battiato è un viaggio iniziato quarant'anni fa che non si è ancora interrotto. Un viaggio multidimensionale, che ha unito tempo e spazio perché del tempo, quel tempo, era figlio, ma dello spazio no, almeno allora: nessuna patria, nessun confine, nessuna dimora.

Non esisteva geograficamente Franco Battiato allora. Non aveva nostalgia dei luoghi da dove era partito, non aveva consapevolezza di quelli dove era arrivato, nessuna voglia di andarsene, nessuna volontà di trovarsi un'alternativa spaziale a ciò che la realtà gli offriva.

   

“Milano ancora non lo opprimeva, la Sicilia era soltanto un pensiero lontano che ogni tanto gli stuzzicava i ricordi. Berlino lo aveva affascinato, in quella città aveva iniziato a pensare a quanto fosse fragile l'esistenza umana alle prese con la storia. L'esperienza berlinese gli aveva messo addosso una voglia di confrontarsi con il mondo, con l'Italia che lo circondava”, disse Giusto Pio nel 2001 al Gazzettino.

Angelo Carrara, colui che produsse il disco, ricordò a Radio3, verso la fine degli anni Novanta, che quell'album fu un'apparizione al termine di un percorso assurdo”. Patriots, il disco precedente del cantautore, “era uscito da qualche mese. Avevamo fatto il primo giro di promozione, che non era andato bene come speravamo, e dovevamo insistere. Avevamo pianificato una serie di eventi, un sacco di rotture di scatole che andavano fatte. Franco era contento di quell'album, diceva che suonava bene, e pure il pubblico era contento. Ma era un pubblico non troppo numeroso. E lui che fece? Sparì. Lo chiamavo a casa e non rispondeva, chiamavo Giusto e non sapeva dove fosse. Si era volatilizzato. E non per qualche giorno, per settimane. L'avrei ammazzato”. Poi riapparve, quando Carrara se ne era fatto ormai una ragione. “Mi disse che aveva capito qual era il problema. Che il pop era una cosa seria, che doveva avere un'attinenza con la società che gli stava attorno. E così quella realtà l'aveva voluta esplorare. Mi disse: 'Mi sono immerso dentro a essa'. Lo perdonai soltanto perché ritenni poco lungimirante ammazzarlo”.

  

Battiato, come ricordò anche Giusto Pio, vagò per l'Italia “per ascoltarla, sentire a cosa pensava, osservarla senza doverla immaginare”.

Il cantautore ondeggiava allora tra la trascendenza di Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo e mistico di origine greco-armena che predicava “una specie di sufismo applicato all'Occidente, all'interno di una società consumistica” (parola di Battiato), e l'immanenza della musica e della società a lui contemporanea. Un'immanenza che aveva ricercato su e giù per il paese, nelle radio e nei bar, che l'aveva attratto e respinto.

Cosa avesse fatto in quelle settimane è a tutti ignoto, altrettanto dove si fosse recato in quel suo giro d'Italia (un Giro d'Italia che unisse la sua biografia e discografia invece sarebbe perfetto per una gara in bicicletta, mezzo che al cantautore incuriosiva e che trovò dimora in due sue canzoni, senza mai riuscire però a trovare le parole giuste per cantarla: Il Re del mondo, prima traccia del lato B di L’era del cinghiale bianco e Le biciclette di Forlì).

  

Quel viaggio fu però “una sorta di pacificazione con il reale”, come sottolineò Carrara, che lo fece uscire da quella nicchia di sperimentalismo e cantautorato dotto, avvicinandolo, per sonorità e scrittura, a un sentire più popolare.

Fu un successo commerciale, degno inizio di quegli anni Ottanta che in parte allontanarono i cantautori dal giogo dell'appartenenza politica, liberandoli dai capi troppo stretti della protesta.

Un protesta che era rimasta in Battiato, che prendeva di mira le idiosincrasie della società consumistica, ma che usciva in un mescolio inedito di citazionismo che andava da Adorno e raggiungeva Alan Sorrenti, che teneva sullo stesso piano Vivaldi e Nicola di Bari, Mina e la poesia del Seicento. Un mescolio talmente vivace che dematerializzava qualsiasi forma e ne dava una nuova. “Battiato diventò dada quando accostò la sua musica alla musica pop”, disse sul finire degli anni Novanta il compositore Peter Zinovieff, nonché inventore del VCS3, il primo sintetizzatore “portatile” disponibile in commercio. “Franco fu uno dei primi a utilizzarlo. Era l'epoca dei suoi primi dischi sperimentali, di quella straordinaria voglia di percorrere l'universo musicale che aveva. Quell'universo lo percorse davvero. Ma riuscì a farlo suo e quindi a distruggerlo, imponendosi, quando si accorse davvero di non suonare solo per se stesso. La musica è arte, certo, ma ogni arte deve affacciarsi a un pubblico, altrimenti diventa onanismo”.

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