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Spotify suona a Wall Street

Redazione

La ruffianeria intelligente di disintermediare le banche e chiamarla “empatia”

La ruffianeria sembra la cifra distintiva delle compagnie tecnologiche. Mark Zuckerberg di Facebook vuole che i suoi utenti “restino in famiglia” e quindi riduce la circolazione di inserzioni. La ruffianeria è una tattica per chi se la può permettere. E’ il caso di Spotify che ha intenzione di evitare una Offerta pubblica iniziale regolare. Vuole vendere direttamente le sue azioni a Wall Street e raccogliere almeno 1 miliardo di dollari invece che emetterne di nuove. Il ceo del popolare servizio di musica digitale, lo svedese Daniel Ek, 35 anni, l’ha propagandata come un’operazione “empatia”. “Noi crediamo fermamente di potere migliorare il mondo, una canzone alla volta”. Sa di idealismo. Qualcosa di lontano – e molto – dalla vendita di azioni e dalla comune visione degli affari, solitamente intesi come la cosa più distante possibile dai sentimenti. Non c’è una sollecitazione all’acquisto di titoli ma, di fatto, la chiamata a una specie di crowdfunding, una gigantesca colletta tra chi crede in un progetto, che rientra perfettamente nella logica di disintermedizione che Spotify rappresenta.

 

Si può ascoltare musica gratis (o in abbonamento) senza filtri e secondo i propri precisi gusti, è la massificazione della “customizzazione”. E come si può accedere alla musica senza filtri così si può fare con gli investimenti. Andando in Borsa in quel modo inusuale, Spotify celebra il proprio modello di business chiamando a raccolta i suoi clienti, circa 160 milioni, che conoscono bene il suo modello e non avrebbero nemmeno bisogno di leggere le 1.300 parole di presentazione del progetto. Non c’è bisogno di un roadshow con le banche d’affari e nemmeno di usufruire dei servigi di Goldman Sachs e altri per fissare il prezzo delle azioni, ovvero tutto quel che il processo di Offerta pubblica iniziale comporterebbe. Il prezzo lo farà il mercato il giorno della quotazione (sarà normale una certa volatilità). Ma in questo processo, e per un prodotto come questo, l’intermediazione bancaria non serve, è superflua. Spotify è un brand conosciuto, con funzionamento e potenzialità note al (suo) pubblico, già digitalizzato e soprattutto identitario. Che senso avrebbe infliggere un costo ai futuri azionisti per pagare delle commissioni ai colossi bancari? Alla fine quella “gabella” la pagherebbero gli azionisti stessi in termini di minori dividendi. Spotify non può nuocere a chi vuole cambiare il mondo con la musica. C’è della ruffianeria in tutto questo, ma intelligente.

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