Nato a Empoli nel 1866, Ferruccio Busoni, compositore e leggendario pianista, è morto a Berlino nel 1924. Nella capitale tedesca si era già stabilito prima della Grande guerra

L'altra Turandot

Marina Valensise

Una donna impossibile. Sadismo sentimentale e insieme commedia dell’arte nell’opera di Busoni. All’ombra di Alma e Gustav Mahler

In tempi di #MeToo, di donne che denunciano gli uomini che le seducono e le molestano, non è male tornare all’epoca del sadismo femminile, quando le signore potevano scegliere di decapitare i loro pretendenti, reputandoli inadatti al ruolo, qualora fossero risultati incapaci di risolvere tre indovinelli. L’occasione è a portata di mano. Stiamo parlando di Turandot, una grande nevrotica che ha deciso di non concedersi ad alcuno e risponde all’amore con la condanna a morte, salvo ravvedersi e rischiare in proprio. Personaggio ormai mitologico per noi contemporanei, rassegnati come siamo all’eguaglianza di genere e alla mortificazione dell’amore. Col suo fascino fuori tempo, sembra offrire uno specchio deformante delle nostre ossessioni. E Ferruccio Busoni, che ai primi del Novecento ne fece la protagonista di un’opera tragicomica, sembrò anticiparlo quasi come un veggente, stando almeno alla recita di sorprendente modernità che abbiamo visto ieri sera. La Turandot di Busoni, nata vent’anni prima di quell’ultima opera incompiuta di Puccini e con tutt’altri fini, ha infatti inaugurato, in tandem con Suor Angelica di Puccini, la stagione al Teatro lirico di Cagliari, sotto la direzione di Donato Renzetti, e con la regia, le scene, i costumi e le luci di Denis Krief (sette repliche fino a domenica 11), in un nuovo allestimento coprodotto da Teatro del Giglio di Lucca, e completamente diverso da quello del Teatro Verdi di Sassari, con cui nel 2000 lo stesso Krief vinse il premio Abbiati.

 

Nata vent’anni prima della omonima incompiuta di Puccini, e con tutt’altri fini, ha inaugurato la stagione del Teatro lirico di Cagliari

Abbiamo assistito alla recita di un’opera modernissima, a una musica piena di leggerezza e di cose profonde, a una pantomima piena di brio, animata dalle maschere del teatro popolare italiano, come Tartaglia, che non per niente è balbuziente, come Pantalone che parla in venessian, o come Truffaldino, il capo degli eunuchi, che da tenore leggero tira bordate a destra e manca, incluso uno strepitoso elogio dei single che sembra appena uscito dall’agenda per le pari opportunità: “Trovo giusto e saggio / che Turandot non voglia sposarsi: / io pure non sono sposato, / e neppure la mamma mia. / Sol questi deboli / che su una gamba sola non san stare, / vanno in cerca di un appoggio”.

 

Per quest’opera sorprendente e però bollata dal grande Mario Bortolotto come “una vera scempiaggine, che andrebbe lasciata alle tignole”, Denis Krief è riuscito ad allestire una regia molto classica e latina, nel solco della migliore tradizione italiana, per intenderci senza cucinini Ikea né vasche da bagno grondanti di sangue. Un’unica quinta con tre pannelli illuminati da magiche variazioni di colori, per rappresentare la città imperiale, prima, e poi il convento di Suor Angelica. Costumi variopinti e curatissimi, pure quando si tratti di semplici abiti da suora. Le maschere della commedia dell’arte che si muovono rapide come folletti, fra un giardinetto di teschi (dei pretendenti condannati a morte) e certi carrellini per il trasloco, che ora fungono da base per le poltrone degli otto saggi, ora da trono per l’imperatore Altoum, e in Suor Angelica diventano l’orto della monaca già madre single e il parlatorio per l’incontro con la tremenda zia che la porterà al suicidio. “Niente di più diverso tra queste due opere”, dice Krief con sorriso sornione dall’alto della sua stazza. “Busoni è uno che si diverte, uno spirito libero. Pensi che a Berlino nel suo stesso palazzo a Schöneberg anni dopo visse Billy Wilder… E’ uno che gioca con la commedia dell’arte nel momento del suo repêchage internazionale: ai primi del Novecento a Mosca, a Parigi, a Berlino, tutti i grandi registi, da Vachtangov, l’allievo ribelle di Stanislavskij, a Copeau, sino a Max Reinhardt portavano in scena le favole di Gozzi, tradotte da Schiller, messe in scena da Goethe e ispirate a loro volta a quelle del francese Pétis de la Croix, vissuto ai tempi di Re Sole. Così, quella di Busoni è un’opera comica. La scheda psicologica è vuota. Il libretto è impossibile, al limite della rappresentabilità, tant’è che bisogna inventarsi di tutto per farlo vivere. Non per niente, Busoni fu il maestro di Kurt Weill. Siamo in piena destrutturazione postromantica, ma il modello di Busoni è il Singspiel tedesco, le turcherie mozartiane del Ratto dal Serraglio e del Flauto magico vanno e vengono nella partitura la quale, però, a differenza dell’Opera da tre soldi, prevede un’enorme orchestra…”.

 

Era un immenso pianista, famoso in tutto il mondo per le sue trascrizioni di Bach e per i suoi concerti. Il ritratto di Zweig

Prima di scrivere la sua Turandot nel 1917, con tanto di libretto in tedesco dedicato a Toscanini, e prima ancora di comporre nel 1911 le musiche di scena per l’adattamento della favola di Gozzi da parte di Karl Vollmoeller destinate alla produzione di Max Reinhardt per il Deutsches Theater di Berlino, il tosco-tedesco Busoni aveva voluto comporre una musica illustrativa per un dramma. Così nel 1905 era nata la sua Turandot Suite per orchestra: “Il dramma scelto a questo scopo è una vecchia fiaba teatrale tragicomica del nostro Carlo Gozzi”, scriveva a casa da Berlino il 21 agosto 1905 (procuratevi subito, libro di fondamentale interesse, le Lettere di Busoni, con annesso carteggio Busoni-Schönberg, pubblicate a Londra a cura di Antony Beau   mont e in italiano a cura di Sergio Sablich per i tipi dell’editore Ricordi nel 1988 con ristampa nel 2006). “La mia fiaba – scrive sempre nella stessa lettera, dove annuncia di averla terminata dopo due mesi di lavoro – è quella della crudele e seducente principessa chinese (sic) (o persiana Dio lo sa), che pretende, da chi la vuol sposare, la soluzione di tre indovinelli a rischio di perder la testa sbagliando il compito. Vi agiscono, oltre ai personaggi serii e orientali, le vecchie maschere veneziane come personaggi faceti: Pantalone, Brighella e Truffaldino”.

 

Figura leggendaria nella storia della musica del Novecento, il pianista e compositore Ferruccio Busoni era “un tedesco italianizzato”, e dunque un Diavolo incarnato, stando all’antico proverbio rinascimentale ripreso dai luterani. Ma era un toscano di Empoli, nato da una coppia mista di concertisti sempre in viaggio – padre clarinettista, madre pianista altoatesina, adorata – ed era vissuto a lungo coi nonni a Trieste prima di farsi naturalizzare tedesco. Di fatto, era un cosmopolita che si sentiva “a casa ovunque e in nessun luogo”. Aveva vissuto a Helsinki, insegnato a Mosca dove vinse anche il premio Rubinstein e incontrò la donna della sua vita, si era trasferito a Berlino, e per qualche anno persino negli Stati Uniti, che odiò di sicuro livore e dove nacque il primo dei suoi due figli. Dopo aver lavorato qualche tempo al Conservatorio di Bologna, se ne scappò a gambe levate, inorridito dal clima provinciale e dall’atmosfera irriformabile, per approdare durante la Grande guerra a Zurigo, senza però schierarsi fra i pacifisti, e vivendo isolato per la sola musica.

 

La sua Turandot, lungi dall’essere un personaggio tragico, induce al comico. E’ una maschera priva di psicologia, che respira la risata di Busoni, “quella risata così unica, italiana, aretina, che ha sulla gente lo stesso effetto della sua arte magistrale”, scriverà sbagliando l’amico Stefan Zweig (leggete Il ritorno di Gustav Mahler pubblicato da Passigli). Perciò, pur essendo un’integralista della castrazione, la sua Turandot è una donna che si dispera quando cade vittima del fascino del forestiero Kalaf. Anche lei lo sottopone a tre indovinelli, e Busoni propone tre soluzioni diverse da quelle di Gozzi. Ma alla fine si ritrova a dover risolvere l’indovinello posto a lei da Kalaf, il quale in una botta di generosità si dice pronto a rinunciare a sposarla, se lei indovina.

 

Il sadismo sentimentale e la sua presa in giro sono dunque al centro di quest’opera tragicomica che ruota intorno a una donna impossibile, circondata da una corte di eunuchi, con padre smanioso di farla impalmare, una confidente un po’ rivale, che alla fine riesce a liberarla dalle sue nevrosi, liberando se stessa.

 

L’opera, con libretto in tedesco dedicato a Toscanini, è del 1917. Ma aveva già musicato la “fiaba teatrale tragicomica” di Gozzi

E il sadismo in fondo è un tema fatale quando pensiamo che una delle prime esecuzioni della Turandot Suite avvenne a Boston nel 1911 sotto la direzione di Gustav Mahler, il grande compositore e direttore d’orchestra, vittima all’epoca della giovane moglie, Alma Mahler, che fu la regina del sadismo del Novecento sino a farne un’arte a sé. Splendida silfide della Secessione, aspirante compositrice in proprio, amante del non proprio aitante Zemlinsky, appena ventenne era riuscita a conquistare in un batter d’occhio il famosissimo direttore dell’Opera di stato di Vienna. Poche settimane dopo i due si fidanzarono, e ai primi di marzo del 1902 convolarono a nozze, salvo poi finire prigionieri di un connubio invivibile, dal quale lui si sottrasse astraendosi nell’arte, e lei grazie a un ampio stuolo di amanti, condannati tutti a sofferenze indicibili, da Walter Gropius, che più tardi ne diventerà il secondo marito, al grande Oscar Kokoschka, che penserà di liberarsene trucidandola in effigie, sino a Franz Werfel, scrittore umanitario e molto patito di Verdi e di melodramma italiano, non senza aver fatto nel frattempo strage di cuori di artisti, teologi, poeti...

 

Come non pensare a lei, Alma Mahler e al marito, sua prima vittima. Gustav Mahler era malatissimo quel 21 febbraio 1911. Quel giorno, dopo aver diretto la Turandot Suite a Boston, diresse al Carnegie Hall di New York la prima mondiale di un’altra composizione di Busoni, la Berceuse élégiaque, scritta nel 1909 e dedicata alla memoria della madre pianista. Busoni era in America da più di due mesi. Era arrivato a New York nel dicembre 1910. Avrebbe dovuto tenere 39 concerti in 11 settimane. “La prima impressione è sempre di barbarie; si vorrebbe prendere subito la prima nave che torna indietro”, scrisse non proprio estasiato a Egon Petri. E arrivato a Chicago, il 25 gennaio 1911, ribadiva il concetto al giovane amico: “Mi stupisco di quelle persone che desiderano l’America. E’ adatta solo a coloro che non sanno fare altro che suonare il loro strumento e non hanno il senso del pudore”.

 

In queste condizioni, i concerti diretti da Mahler dovettero apparirgli un sogno. “Mahler è sempre stimolante (…) E’ un artista creativo”, scrive a Egon Petri il 6 febbraio. “La prima esecuzione della Berceuse élégiaque sotto la sua bacchetta è andata molto bene”. A Boston, fra l’altro aveva avuto modo di conoscere Toscanini, “uomo dall’intelligenza straordinariamente viva con cui mi sono subito inteso”, al quale dedicherà libretto e partitura della Turandot.

 

Nel 1911 Mahler, malatissimo, diresse in America sia la “Turandot Suite” sia la “Berceuse élégiaque”. Tornarono insieme in Europa

Quei concerti in America sarebbero stati per Mahler gli ultimi della sua vita. Poche settimane dopo, sofferente, il compositore si imbarcò con la moglie su un piroscafo diretto a Cherbourg. I giorni di traversata dell’Atlantico furono lenti e dolorosi, ma anche ameni. Sulla stessa nave viaggiavano infatti Busoni, che aveva concluso i suoi concerti americani, e Stefan Zweig, che di quella traversata lascerà un ritratto struggente. “Stavo tornando dall’America, e sulla stessa nave c’era lui, gravemente malato, un uomo morente. Una primavera precoce era nell’aria, la traversata procedeva dolcemente su un mare blu mosso da onde leggere; avevamo formato un piccolo gruppo, Busoni regalò, a noi amici, la sua musica. Tutto ci portava a sentirci gioiosi, ma sotto, da qualche parte, nelle viscere della nave, lui giaceva semi addormentato, vegliato dalla moglie, e questo gettava un’ombra sulla leggerezza delle nostre giornate. Talvolta, quando ridevamo, uno di noi diceva: ‘Mahler! Il povero Mahler!’, e restavamo ammutoliti, Lui giaceva giù nel profondo, un’anima perduta che ardeva nella febbre, e solo una piccola fiamma chiara della sua vita guizzava sul ponte, all’aria aperta: la sua bambina che giocava spensierata, beata e inconsapevole, Noi però, noi sapevamo: lo percepivamo come in un sepolcro là sotto, sotto i nostri piedi”.

 

Anche Busoni era perfettamente consapevole della situazione. Era un uomo buono, “prodigo di aiuto e di amicizia – dirà Zweig – dagli occhi luminosi, puri e acquerellini, occhi cui piace guardare il mondo e poi posarsi sui libri, occhi che amano i colori, le donne, che bevono e cercano”. Era un immenso pianista, famoso in tutto il mondo per le sue trascrizioni di Bach e per i suoi concerti. “Busoni ascolta. Ascolta se stesso suonare –scriverà Zweig – sembra quasi scordarsi che questa cosa che lo avvolge come un brivido dolcissimo defluisce da lui stesso”… E tutto questo basta e avanza per una sceneggiatura sull’ultima traversata di Mahler, da mettere subito in cantiere. Una volta rientrato a Berlino, il 25 maggio, appena una settimana dopo la morte di Mahler, Busoni scriverà all’amica Irma Bekh: “Dal 1° maggio (sono tornato alla fine di aprile) lavoro di nuovo intensamente per me stesso. E’ il periodo più bello della mia vita: è primavera, sono libero e sano e profondamente grato al destino, con una certa emozione”. E poi: “Tutto ciò mi sembrava quasi ingiusto mentre Mahler era in punto di morte; mi rimordeva la coscienza. Sono tornato dall’America sulla stessa nave con lui, e già allora vedevo chiaramente come sarebbe andata a finire. La nostra compagnia di viaggio ne era oppressa e spesso nel bel mezzo della conversazione calava il silenzio. Ora che non è più lo vedo diventare sempre più bello. Un vero artista e un carattere meraviglioso”.

 

La stessa Alma Mahler, la sposa impossibile, la vedova del genio e la vedova delle arti, molto dedita al rum, ricorderà Busoni come una persona realmente di cuore “Tutti i giorni mandava a Mahler dei contrappunti pazzeschi e buffi per divertirlo, e vino. Una volta, mentre Mahler dormiva, passeggiavamo insieme per il ponte e parlavamo di Mahler, che Busoni amava. Ci fermammo a guardare il mare oltre il parapetto. Busoni disse: ‘Son ben strani i tedeschi’! Non capiscono mai le persone viventi, Il genio di Mahler, per esempio non è ancora affatto riconosciuto. Sono ancora titubanti. In fondo, non sanno nulla di lui. Ma quando, un giorno, non ci sarà più, allora sì”. Una constatazione che sarebbe valsa anche per lui.

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