il foglio della moda

Miliardari straccioni: Shein è il primo operatore della moda al mondo

Giorgia Motta

Mentre il lusso si distraeva con le star Piccioli e Michele, il colosso dell’ultrafast fashion ha scalato le classifiche con un fatturato di 45 miliardi di dollari. Alimentato soprattutto dalla Generazione Z, la stessa che protesta contro l’inquinamento del pianeta

Così, mentre per quindici giorni i critici di moda si sono baloccati con il gioco della sedia, inseguendo la notizia dell’uscita di Pierpaolo Piccioli e del suo team diretto da Valentino e il successivo ingaggio di Alessandro Michele e immaginando che cosa dovrà accadere nella maison di piazza Mignanelli perché possa raggiungere l’obiettivo dei 2 miliardi di fatturato che si prefigge la nuova proprietà Kering (a proposito: e perché mai dovrebbe raggiungerli? E’ naturale che Valentino finisca per fatturare come una linea di produzione della Procter&Gamble?), la notizia davvero preoccupante e alla quale tutti hanno riservato poca attenzione è un’altra. Ed è che Shein, il colosso cinese dell’ultrafashion di zero qualità che però non vende in Cina, riservando cioè tutti i suoi abiti e i suoi accessori e ora anche la sua tovaglieria per la casa all’occidente, puntando al contempo a quotarsi a Wall Street nonostante le autorità statunitensi trovino da due anni ogni cavillo per impedirglielo, è diventato il primo operatore mondiale della distribuzione di moda: nel 2023 ha fatturato 45 miliardi di dollari, raddoppiando i profitti a 2 miliardi. Inditex, la holding che controlla Zara, ne fattura quasi 36.

Il report che certifica il boom di Shein, sottoscritto dai consueti analisti entusiasti per i quali chissenefrega del pianeta e delle condizioni dei lavoratori perché io voglio comprarmi la villa al mare o magari una nuova Birkin di Hermès e dunque fatevi sotto gente, investite nella futura quotazione che ci guadagniamo tutti, è stato inviato un paio di giorni fa agli esperti e ai critici del settore moda da Global Data, per voce di Louise Deglise-Favre, responsabile del comparto abbigliamento. Il tono del testo è a dir poco enfatico: per una buona ventina di righe si sprecano avverbi e aggettivi come “formidabile”, “fenomenale”, instillando nel lettore non solo l’idea che una simile sovrapproduzione sia ampiamente giustificata in quanto “la sua offerta di prodotti ampia e conveniente ha mantenuto un alto appeal fra i consumatori nel difficile clima economico dello scorso anno”, ma che la sua “forza risieda in parte nella sua capacità di lanciare nuovi articoli ogni giorno, garantendo che risponda alle tendenze in tempo record”, cioè nell’abilità di sfruttare con successo la potenza dei social media, traendo vantaggio sia dall’influencer marketing sia dai contenuti generati dagli utenti, come i “video haul” che l’hanno aiutato a diventare una priorità della Generazione Z (nota per gli irriducibili boomer, i “video bottini” sono quei pietosi siparietti social in cui influencer pressoché ignote aprono pacchi e scatoloni zeppi di vestiti comprati su Shein o Temu e li mettono a confronto, in un tripudio di stoffe sintetiche e di colori cheap che saltano all’occhio perfino attraverso lo smartphone)”. L’analisi aggiunge che la crescita di Shein sarà guidata anche dall'espansione del suo mercato, che vende marchi di terze parti come Romwe ed Emery Rose e della catena Forever 21, che Shein ha parzialmente acquisito nell'agosto 2023. Solo nelle ultime righe, madame Deglise-Favre ricorda che Shein, di cui gran parte del mondo ignora perfino il nome del proprietario, Chris Xu, sarà “costretta” ad essere più trasparente sui suoi flussi di cassa e asset finanziari, sulle pratiche messe in atto nella catena di fornitura, sui propri standard etici, quando, se e dove (perché la sede della quotazione non è ancora stata determinata) diventerà pubblica.

La possibile verità dietro a tutto questo magico attivismo e a questi risultati “formidables”, attiene sia alle condizioni di lavoro degli operai, denunciate nei mesi scorsi dalla ong Public Eye, che lavorano in laboratori noti come “handshake building” (una stretta di mano e via, zero sicurezza ma in compenso ritmi estenuanti fino a settantacinque ore settimanali con un solo giorno di riposo al mese), sia alla in-sostenibilità ambientale di questa produzione (in anni nei quali sempre più aziende di moda adottano politiche di economia circolare per ridurre gli scarti, il 70 per cento dei prodotti Shein ha un ciclo di vita inferiore ai tre mesi e la possibilità che vengano rivenduti, riciclati o riutilizzati è bassissima per via della loro scarsa qualità, senza considerare che anche nell’Unione Europea, la più avanzata nel settore, l’87 per cento dei rifiuti tessili finisce ancora in discarica).

Vi è inoltre un altro elemento sospetto, nell’attività di Shein, e riguarda proprio la sua fantastica abilità nell’intercettare le tendenze del momento. A fine dicembre del 2023, negli Stati Uniti, tre stilisti indipendenti, Krista Perry, Larissa Martinez e Jay Baron, le hanno intentato causa per “sistematica violazione criminale della proprietà intellettuale” guidata dall’intelligenza artificiale. I tre sostengono, non si sa con quali prove e questo è certamente il punto debole della loro denuncia, che Shein disponga di un algoritmo proprietario che utilizza per manipolare i dati di mercato, i risultati delle ricerche e allontanare ingiustamente i concorrenti, dando luogo a pratiche monopolistiche. Secondo quanto scritto nella denuncia, “l’intelligenza artificiale di Shein è abbastanza intelligente da appropriarsi indebitamente dei pezzi con il maggior potenziale commerciale”, mettendo in crisi il lavoro di migliaia di stilisti, non solo americani. Ma se queste dichiarazioni, un po’ ingenue e un po’ da caccia alle streghe, sono quasi certamente e purtroppo destinate a non avere conseguenze (la difesa della proprietà intellettuale nella moda è terreno minato e difficilissimo da difendere), la verità è che nei confronti di operatori come Shein e dei suoi diretti inseguitori, nomi come Cider o Temu (il suo slogan “compra da miliardario”, occhieggia naturalmente ai giovani con scarso potere d’acquisto e alla classe media impoverita) che vendono a prezzi ancora inferiori roba di qualità ancora peggiore, non c’è nessuna vera preclusione intellettuale o morale nemmeno da quella Generazione Z che frigna e lancia vernici contro le statue ed è pronta a salire sulle barricate contro “il capitalismo che le ha arrubato il futuro e manda il pianeta allo scatafascio”. Mai una volta che questa brillante generazione di ventenni riesca a intuire di essere parte integrante di questo sistema, che gioca sulla sua ansia di soddisfazione immediata e la sua incapacità di rinunciare al vestitino nuovo ogni settimana, consegnato a casa con dispendio di materiale di imballaggio, trasporto, inquinamento ambientale. A loro basta credere di essere dei miliardari.

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