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Il foglio della moda

Aristodem in passerella. Messaggi frammentati e percepito di massa

Fabiana Giacomotti

Che cosa rimane in tempi social e di sovraesposizione dei brand della “fashion royalty” di un tempo, dei nomi e delle tendenze che tutti imitavano e che rassicuravano i clienti? Più di quanto si immagini, anche nel Made in Italy. Ricerca esclusiva di Banca IFIS

“Need a suit? Try vintage Armani”, suggeriva pochi giorni fa il “Financial Times”, e non per una questione economica, ma di correlazione estetica ideale e molto contemporanea fra quelle giacche ampie e morbide “che stavano così bene su Winona Ryder e Julia Roberts” e una serie di marchi dell’ultima generazione come The Row delle gemelle Olsen o Toteme, il marchio svedese minimalista fondato dieci anni fa da Elin Kling e Karl Lindman.

 

Il fatto che Armani sia tornato a essere considerato molto cool in questi ultimi anni, in specie per quanto riguarda l’abbigliamento maschile che una lunga serie di stylist considerano “chiaro e preciso nella raffigurazione di una mascolinità non tossica, non soverchiante, ma risolta e appagata”, attiene naturalmente alla sua storia lunghissima, ormai sono quarantanove anni e sembra ieri che ne festeggiavamo il quarto decennio mentre a Milano si apriva l’Expo, e a quella collocazione nella storia della moda che fino a pochi anni fa, cioè fino alla frammentazione del messaggio prodotta dai social e dal suo progressivo mescolarsi con i marchi industriali dello streetwear, si definiva “fashion royalty”, l’aristocrazia della moda. “Re Giorgio”, “kaiser Karl”, avete presente. Fino all’avvento del nuovo millennio, ma anche per tutti i primi anni del decennio 2010, la piramide sociale della cultura del vestire era molto chiara, e nessuno avrebbe potuto sbagliare: fra l’Italia e la Francia, i vertici erano dominati dai marchi, molto spesso dalle famiglie, che avevano fatto la storia della moda, i cui nomi comparivano nelle enciclopedie, insomma, il Gotha, il Debrett. Per l’Italia, escludendo l’alta moda degli Anni Cinquanta e Sessanta gloriosi e pur molto citati di Carosa, Sorelle Fontana, Schuberth, Jole Veneziani, Biki, Capucci, rientravano nell’aristocrazia della moda, anzi lo erano anche in senso proprio - figli di un geniale artigiano imparentati con la nobiltà fiorentina - i Ferragamo oppure i Gucci e le sorelle Fendi, ma anche i creatori del pret-à-porter come gloria nazionale: i Missoni, Mariuccia Mandelli-Krizia, Mila Schon e poi Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Versace. I lori debutti coprono un arco temporale di quasi vent’anni, dalla fine degli Anni Cinquanta all’ultimo quarto dei Settanta; eppure, nella sua raccolta di ricordi sparsi e sagaci sulla moda, “Diario incompleto (di giornalismo e di moda”)”, curata da Egle Santolini per Mondadori Electa, la più longeva direttrice di “Grazia”, Carla Vanni, li racchiude giustamente in un unico momento storico: la nascita del Made in Italy, cioè della moda creativamente industriale, come un unicum, come è collocato nell’immaginario del grande pubblico che ancora oggi si domanda che fine abbia fatto Ferré, “l’architetto”.  Prada, brand di notorietà centenaria per i soli milanesi dell’alta borghesia, è “fashion royalty” mondiale dagli Anni Novanta. Valentino, sia il marchio sia la personalità, si trovava, come si trova tuttora perché certi codici si fissano davvero in via definitiva, trasferendosi quasi intatti perfino a chi non li conosce, in un suo olimpo personale, in equilibrio fra jet set internazionale, leggende di eleganza, capolavori di delicata innovazione. Pierpaolo Piccioli ne ha preso le redini creative in via esclusiva da otto anni, imprimendovi come ovvio il suo stile e la sua visione personale; eppure, osservando la collezione inverno 2024 “Le noir”, presentata pochi giorni fa a Parigi, era difficile non scorgervi un attento, ancorché dinamico, rispetto dei modi, dei tagli, di uno stile generale reso famoso e amato oltre sessant’anni fa.

In quelle molteplici declinazioni del nero e dell’effetto ottico, ma anche sensoriale, che producono sul corpo e sulla pelle, si leggeva una “risignificazione” come ama dire Piccioli, attingendo al lessico e ai modi della semantica ai quali, in effetti, la moda attiene più di ogni altra espressione del genio e della creatività umana, di un racconto iniziato molto tempo fa, e amato da subito. Difendere, sostenere, sviluppare un marchio che rientra nella fashion royalty o in quello che ne rimane non è esercizio facile né per gli eredi indiretti, vedi le critiche feroci che hanno accolto il debutto di Sean McGirr da Alexander McQueen (“un Jonathan Anderson che non ce l’ha fatta” il commento più delicato) né per quelli diretti, vedi una giovane talentuosa come Sofia Bertolli Balestra, nipote di Renato di cui fra due mesi ricorre il centenario, che per affermare la propria visione, totalmente differente da quella del nonno, sta saggiando le proprie forze in prevalenza negli Stati Uniti, dove l’eredità del nome e di un certo stile è meno pesante e persistente. Poi, ci sono i marchi, spesso pluricentenari, dei grandi tessutati sette-ottocenteschi diventati a loro volta produttori tanto di moda quanto di eleganza: Zegna, Loro Piana, Cerruti, sullo sfondo i Marzotto “dal 1836” che oggi, con la presa di potere degli eredi dell’ex amministratore delegato Antonio Favrin (poche ore fa, presso lo Studio del notaio milanese par excellence, Piergaetano Marchetti, hanno depositato un’offerta che per soli diecimila euro di maggiorazione rispetto a quella dei parenti Marzotto, Donà delle Rose, che consente loro il controllo dell’80 per cento del capitale). Ma che cosa significa “aristocrazia della moda”, in anni dell’individualismo esasperato da Instagram? Per fissarne l’evoluzione dal punto di vista dei numeri che sono sempre un buon indicatore, il “Foglio della moda” ha chiesto all’Ufficio studi di Banca Ifis di analizzare l’andamento del mercato della moda dal 2015 a oggi, e di confrontarlo con le performance di brand di questa speciale élite che, pur con partner stranieri importanti come nel caso di Valentino, da pochi mesi ceduto dal fondo sovrano del Qatar Mayhoola a Kering, ha mantenuto solidi profili di indipendenza: Giorgio Armani, Ferragamo, Prada, Zegna e, appunto, la maison di palazzo Mignanelli.

Il confronto, studiato dal team di Banca Ifis guidato da Carmelo Carbotti, indica non solo cinque brand (“di tradizione” come hanno voluto definirli) che, con un fatturato complessivo di quasi 12 miliardi di euro nel 2023, si posizionano non solo come punta di diamante del settore moda in Italia e nel mondo, ma anche come simboli di performance economiche ottime: “La tendenza di crescita dei marchi della tradizione italiana della moda è a doppia cifra e allineato a quello del settore nel suo complesso, complice una domanda di prodotti di lusso che tende a non subire così facilmente i contraccolpi dello scenario macroeconomico”, puntualizza Carbotti. “Il forte posizionamento di mercato, soprattutto internazionale, e il loro soft power, ha prodotto una redditività elevata, quasi doppia rispetto al settore moda nel suo complesso: 28 per cento contro 15 per cento”. Trainata dai consumi europei, i marchi considerati dalla ricerca hanno beneficiato del booster del turismo, soprattutto alto-spendente, che ha portato l’aumento degli acquisti in loco dei turisti statunitensi e mediorientali, all’espansione sui mercati asiatici (tra il 2019 al 2023, l’export verso la Cina è cresciuto dell’81 per cento e del 31% in direzione dell’area Asean), mentre gli Stati Uniti hanno confermato il primato sulla domanda, di cui hanno beneficiato anche i “campioni” italiani, con un aumento del 43 per cento dell’export dal 2019 al 2023. Sullo sfondo, ma determinanti in questa fase espansiva, restano gli investimenti in digitalizzazione, attraverso la creazione o il potenziamento di e-shop propri, e la crescente attenzione alle tematiche ESG, che ha portato a un profondo ripensamento delle dinamiche industriali. Dunque, un settore sano e finanziariamente molto solido e ricco, a prescindere dal rallentamento fisiologico, atteso dopo il boom post-pandemico e già in corso da quasi un anno, ma comunque con ottime prospettive per il futuro, anche nel caso dei nuovi consumatori, la Generazione Z, che a prescindere dall’uso costante dello smartphone, quando deve effettuare acquisti di lusso privilegia l’esperienza in negozio.

La ricerca di Banca Ifis si è basata non solo su banche dati note, ma su una ricerca proprietaria, realizzata su panel Toluna su un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne in Italia e in cinque Paesi rilevanti per l’export moda (2500 casi in Italia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti), che evidenzia come dal 2015 i ricavi della moda in Italia siano cresciuti ininterrottamente (del 7 per cento medio annuo e addirittura del 72 nell’arco di otto anni), anche recuperando immediatamente la flessione del 2020. “Volgendo lo sguardo al biennio 2023-2022 che si è appena chiuso”, spiega Carbotti, “è evidente l’accelerazione della crescita, con un +9 per cento e un +19 per cento anno su anno. Ma il dato singolare”, dice, “è che tutti i comparti hanno contribuito alla crescita, in particolare quello della pelle”. Nonostante l’andamento non sia uguale per tutti gli attori della filiera, come segnalano gli ultimi dati diffusi in occasione di Lineapelle, “grazie agli investimenti nella sostenibilità e all’efficientamento della produzione, ottenuta facendo leva sulle nuove tecnologie, il comparto borse e pelletteria, che conta per il 37 per cento della moda italiana, è quello che registra lo sviluppo più elevato, arrivando a più che raddoppiare il fatturato. E sono interessanti anche le prospettive: tra il 2024 e il 2026 il mercato globale del settore abbigliamento è destinato a continuare a crescere, con un ritmo che si aggira intorno al +3% medio annuo anche se in flessione nel biennio 2025-2026.

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