Gianni Versace nel 1991 a Los Angeles

Esercizi non oziosi

Dove sarebbe Versace oggi se il fondatore fosse ancora vivo

Tony di Corcia

Dove avrebbe portato uno stile che, invece, si ripete identico in molte varianti da quasi trent’anni, spesso con le stesse modelle? Riflessioni dal biografo di un genio rimpianto anche da chi non l’ha conosciuto

Claudia Schiffer, prodigiosamente cristallizzata nella sua bellezza, con il tailleur rosa ispirato alla collezione “Conservative Chic” del 1995. Gigi Hadid con l’abito di gazar nero e il maxi-colletto bianco che rilegge quello indossato da Christy Turlington per Atelier Versace nel 1993. E gli scacchi bianchi e rosa “mod” fotografati da Avedon su Kristen McMenamy, E le stampe “wild baroque”, per tacere delle spille da balia dorate, dei tessuti tagliuzzati e dei giochi di bretelle della citatissima collezione punk del 1994. Nemmeno le ultime collezioni, compresa l’autunno-inverno 2024 appena sfilata a Milano, che Donatella Versace ha creato per tenere vivo l’amore tra il marchio Versace e il pubblico delle nuove generazioni, nate quando il fondatore del marchio era già scomparso, hanno privato i nostalgici (e quelli dotati di una memoria ancora funzionante) di trastullarsi col gioco dei riconoscimenti: un passatempo volutamente ozioso su un’attività legittima, come quella di pescare da un passato che si conferma ancora provvido di idee e temi validissimi.

 

 

L’archivio Versace è, forse, uno dei pochi a poter essere considerato uno scrigno di preziosi: vibra ancora di un’energia pulsante, e non ci riferiamo unicamente agli abiti, ma anche all’immenso patrimonio di immagini create per la comunicazione pubblicitaria, ai costumi per il teatro, agli studi per le stampe, sorprendenti oggi come allora. Se messi a confronto, gli archivi di altri stilisti rimandano un’impressione meno sfavillante, e i pezzi custoditi tradiscono il passare impietoso degli anni e un aspetto sempre più spento, come piante disseccate in un erbario.

     

Soprattutto a conclusione delle fashion week, e dopo più di venticinque anni dalla sua morte, siamo ancora in molti a chiederci che cosa avrebbe fatto Gianni Versace se fosse ancora tra noi. Nessuno sapeva rendere la moda un fenomeno eccitante, desiderabile, attraente quanto lui. L’attesa delle sue sfilate era sempre venata di una curiosità speciale: che cosa avrà fatto, questa volta? In quale direzione sarà andato? A quali sforzi costringerà tutti coloro che lo emulano, lo copiano, lo scimmiottano? E in questo risiedeva già un motivo di piacere, di sottile impazienza, di certezza che quell’attesa non sarebbe stata vana, che le aspettative non sarebbero state deluse. In un’Italia attenta, borghese, conformista, lui sbandierava il vessillo della libertà: di osare, di sperimentare, di divertirsi, e nello sguardo brillava la scintilla degli enfants terribles consapevoli, compiaciuti dal loro non essere allineati, inquadrati.

 

Indubbiamente Versace avrebbe continuato a fare ciò che ha sempre fatto in vita, ovvero la cosa più diversa, e più lontana, da ciò che ci si aspettava che facesse: era sempre da tutt’altra parte rispetto al varco in cui lo si aspettava. I suoi stampati a tema marino erano ormai ovunque, riprodotti anche malamente? E lui fasciava di cinghie le sue ragazze per farne delle dominatrici. Tutti, compresi coloro che avevano tacciato quelle creazioni dal sapore sadomasochistico di rappresentare un pericoloso messaggio di sottomissione femminile, si erano rassegnati all’idea di una moda sfrontata, sessualmente esplicita, palpitante di erotismo? Eccoli puntualmente presi in contropiede con una moda hippy e spontanea, con stampe a fiorellini e tuniche bianche. Appena rassicurati da queste atmosfere più rilassate, (fintamente) innocenti, e già si veniva abbacinati dalla sua rilettura della maliarda hollywoodiana, abbigliata con un glamour che pareva dimenticato. Sei mesi dopo, la collezione “pretty woman”. Controcorrente, sempre. Già agli esordi, negli anni Settanta delle collezioni per Genny e Callaghan, quando disorientava la stampa a Pitti e faceva innamorare le donne che correvano in boutique osando ciò che allora era inconcepibile: accostare la pelle nera e la seta a fiori, il fluido e il costruito, le fantasie e la tinta unita.

  

Di una cosa ci sentiamo certi, e questa sicurezza matura proprio dall’osservazione del suo percorso stilistico: Versace non si sarebbe mai autocitato o ripetuto. Anche quando tornava su passi segnanti della sua carriera, come l’utilizzo della maglia metallica, lo faceva scrivendo un capitolo totalmente nuovo; nel caso specifico, il materiale era stato sottoposto a una tale sperimentazione, a un’innovazione tecnologica, a una realizzazione sartoriale così sapiente da non ricordare affatto le prove precedenti. Per il resto, le strade da seguire erano sempre nuove: un atteggiamento naturale, per un uomo come Versace che era abitato da un’incontenibile curiosità e da una vastità di interessi; erano elementi che gli garantivano freschezza, e una visione sempre giovane.

 

Così come ha saputo innovare la moda, avrebbe continuato a lasciare il suo segno nella comunicazione. Chissà che cosa avrebbe fatto, con strumenti come i social media. Ne avrebbe indubbiamente percepito la portata prima di altri, e li avrebbe resi un elemento della sua creatività. A ben pensarci, erano già prodromi della narrazione estetizzante di Instagram i servizi fotografici che Bruce Weber o Doug Ordway realizzavano per illustrare i suoi cataloghi: accanto alle foto della campagna pubblicitaria, alle atmosfere più solenni e sospese nel tempo come quelle di Richard Avedon, comparivano le immagini di bellissime ragazze o bellissimi ragazzi con bellissimi abiti (o elegantemente nudi, e anche questo è molto Instagram) sullo sfondo di bellissimi luoghi – con Versace la bellezza conosceva unicamente il grado superlativo, le mezze misure non erano ammesse. Miami, il lago di Como, o Capri, e il suo dream team a inscenare una storia: i semi di ciò che sarebbe fiorito decenni più tardi.

 

A rendere i suoi cataloghi degli autentici oggetti di culto, ricercati dai collezionisti e non unicamente dai negozianti, contribuiva la presenza di quello che lui intitolava “Versace’s Diary”: stralci di interviste e di recensioni giornalistiche delle sue collezioni, copertine dedicate alla sua moda, immagini familiari o scattate nel backstage che, già negli anni Ottanta, anticipavano la cultura della condivisione poi confluita nei siti web, nei blog, nei profili social, nelle stories. Si è già detto da più parti del fatto che le top model, da lui scoperte e lanciate a dozzine, siano state influencer quando il termine non era di uso frequente: e Gianni era consapevolissimo che la loro presenza nei suoi show era un elemento amplificatore del suo linguaggio. Nei suoi negozi sparsi sul globo terrestre, le clienti non chiedevano quel costume nero visto in sfilata, ma il “costume di Naomi”.

 

Come è inevitabile in questi casi, le supposizioni appartengono al periodo ipotetico dell’impossibilità. Ma immaginare Versace oggi, in fondo, è un modo per continuare a omaggiarlo e a riconoscere la sua grandezza, tutt’altro che scalfita o ridimensionata.

 

Ci piace, pertanto, pensarlo impegnato in progetti speciali con personaggi che gli piacevano: come quando impresse la sua impronta a “The one” del suo amico Elton John, curando l’immagine globale di quel tour e di quell’album. Forse si sarebbe legato a qualche giovane personaggio con cui si sentiva in sintonia, come la collaborazione/amicizia che lega Haider Ackermann e Timothée Chalamet.

 

Avrebbe continuato a stravolgere le liturgie consolidate della moda, come quando ha eliminato la pedana facendo sfilare le modelle a pochi centimetri dagli ospiti, o reinventando il momento della presentazione rendendolo un evento memorabile come la sfilata per la moda maschile che tenne a Firenze, al Giardino di Boboli, poche settimane prima della sua morte, con i modelli che si mescolavano ai danzatori di Maurice Béjart. In quell’occasione, una Naomi Campbell dall’espressione pietrificata puntava una pistola verso il pubblico: tutti pensarono a una trovata coreografica, nessuno poteva immaginare. Forse solo Béjart, e chissà quanto consciamente. Era una personalità sciamanica, avvertiva tutto più intensamente e più anticipatamente rispetto ai comuni mortali. Dopo quella che sarebbe stata l’ultima sfilata del suo amico, a Parigi, gli disse: “Non partire per Miami”. Gianni non gli diede ascolto, e la storia prese quel corso nerissimo e inaccettabile.

 

Ecco, se Gianni Versace fosse ancora vivo avrebbe continuato a fare anche questo: non si sarebbe lasciato influenzare, da nessuno, e avrebbe ascoltato sempre e comunque la sua voce interiore, e i suoi desideri. A qualunque costo.

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