Il foglio della moda

L'arte di trarre bellezza dai luoghi di lavoro e dal nostro surplus l'abito umano

Fabiana Giacomotti

Per i latini, l’habitus rappresentava il vestire, ma anche il comportamento e il modo di pensare. Quello che noi, oggi, stentiamo a mutare. Conversazione a molte voci in attesa del Festival della Green Economy (dove saremo anche noi)

Fra i pezzi dell’archivio Levi’s che verranno esposti da domani a fine Aprile al Mudec di Milano ve n’è uno che, siamo pronti a scommetterci, prenderà tutti i titoli, tutti i post di Instagram e ogni racconto fra i pochi che, in quest’epoca di immagini, si ha ancora voglia di fare, magari agli amici, per dire loro che sì, c’è almeno un capo per cui valga la pena di andarla a vedere, questa mostra di “Icons, innovations and firsts” che parrebbe unicamente autocelebrativa, modello Dolce&Gabbana a Palazzo Reale di Milano, e invece no perché è un trattato di etnologia e di studi sociali. Il jeans da vedere assolutamente, e sul quale viene anche un po’ da commuoversi, risale al 1873-1874 (l’archivio di Levi’s tiene alla corretta imprecisione), porta la definizione molto archivistica di “Lot 201 jean”, ha le bretelle ancora attaccate ed è attraversato dalle colate di cera di candela del minatore che li indossava, e che evidentemente portava la candela attaccata alla testa con una fascia per illuminare il cammino e indirizzare i colpi di piccone.
 

Una sindone della fatica che diventa storia umana e di bellezza. Per chi, come le nostre tre-quattro ultime generazioni occidentali, il massimo dell’apporto sociale e della riflessione culturale attorno a un capo è quanto sia genderless e rispettoso delle culture altrui, capirete che questo paio di jeans è uno schiaffo ben assestato, un po’ come il cosiddetto “Viola jean”, dal nome della proprietaria fotografata accanto al reperto, una ragazza che frequentava un college americano non identificato all’inizio degli Anni Trenta: è considerato il più antico paio di jeans blu da donna ancora esistente, e osservandolo viene da pensare quali battaglie Viola dovette aver ingaggiato in famiglia e nello stesso ateneo per poterli indossare, perché se le minatrici o le lavoranti nelle fabbriche del Nord America sono fotografate con i jeans addosso già alla fine dell’Ottocento, è storia che le ragazze cosiddette “perbene”, specialmente in Europa, non abbiano avuto accesso ai pantaloni ancora per altri settant’anni, tanto meno nei luoghi di lavoro o di studio. Questo per ricordare che la moda, cioè quello che indossiamo, ma anche i luoghi in cui lo facciamo, o la creiamo, o la produciamo, lasciano segni di noi, di quella che è stata la nostra storia e di quella che sarà, molto più di quanto crediamo e ben oltre la mera dimensione estetica.
 

Per questo, nel momento in cui, qualche giorno fa, ho iniziato a scambiare opinioni con Guido Canali, uno dei nostri massimi architetti di spazi industriali, in vista del dialogo che imbastiremo fra poche ore a Parma, nell’ambito di quella grande kermesse della sostenibilità applicata che è diventato il Festival della Green Economy (l’appuntamento è per sabato 6 aprile a Le Village alle 18, per informazioni sul programma greenweekfestival.it), non sono riuscita a fare a meno di pensare alle sue fabbriche-giardino – come Smeg, Pinko e i due centri operativi di Prada in Valdarno, Valvigna e Levanelle – senza visualizzare contemporaneamente quell’ immenso antro proto-industriale affacciato sul torrente Cervo, a Biella, nel quale Michelangelo Pistoletto ha installato con molta saggezza il più grande dei suoi “Terzo Paradiso”, viatico scultoreo, quasi un mandala, della connessione equilibrata fra artificio e natura. In origine, quello spazio ad arcate e a volte era una fabbrica tessile. La prima volta che vi entrai, molti anni fa, per effettuare delle riprese, era vuoto, e i passi degli operatori e i miei si intrecciavano rimbombando sotto le volte con un impatto acustico tale che non si poteva evitare di immaginare il rumore assordante che per quasi due secoli vi avevano prodotto decine di macchine tessili azionate dalla forza dell’acqua sottostante, e le spaventose condizioni di lavoro a cui erano stati sottoposti migliaia di lavoranti, perlopiù donne. Umidità, rumore, caldo. Quando, oggi, si parla di sostenibilità, forse non bisognerebbe dimenticare la progressiva evoluzione di cui il lavoro, e in particolare il lavoro tessile e conciario, hanno goduto nell’ultimo mezzo secolo, almeno in Occidente e fatti salvi i laboratori clandestini che ogni tanto vengono ancora, ma sempre meno, scoperti dalle forze dell’ordine anche nel cuore di Milano e che sono perlopiù di manovalanza cinese.
 

Di questo sviluppo sono pietre miliari, talvolta letteralmente perché hanno modificato la riconoscibilità dei luoghi e le modalità di accesso, iniziative come San Leucio con le sue linde casette unifamiliari oggi contese dai turisti, che la storia attribuisce a Ferdinando IV ma che furono naturalmente iniziativa di sua moglie, l’illuminata Maria Carolina d’Austria; quindi, fra i molti villaggi operai, Crespi d’Adda, modello capitalistico di città ideale oggi patrimonio Unesco, o ancora la fabbrica Olivetti di Ivrea. “La fabbrica è per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, diceva il geniale imprenditore, sostenuto da Gio Ponti che nell’immediato dopoguerra, sulla rivista “Domus” del luglio 1948, elenca i “sette termini di civiltà”, ossia i presupposti costitutivi di ogni cultura. I primi due parametri, “la civiltà nel lavoro” e la “civiltà nelle condizioni di vita” sono rappresentati dalle immagini della fabbrica in vetro,  e delle case operaie Olivetti a Ivrea, che l’erede di Camillo Olivetti ha studiato negli Stati Uniti. C’è insomma una lunga teoria evolutiva che lega idealmente le fabbriche di allora a quelle di oggi, anche se sono state create ex novo e non sono il frutto di un attento restauro e di una riqualificazione come nel caso dello stabilimento di Fendi a Bagno a Ripoli, già fornace Brunelleschi. Quando Canali indica nella traslazione del concetto di fabbrica a quella di luogo di lavoro nel quale la nozione del “piacere” può trovare spazio la base della sua progettazione, è evidente che il cammino percorso dall’inferno di Biella alle distese di rosmarino e i pioppi di Levanelle siastato, dopotutto, incredibilmente breve.
 

Sono bastati meno di centocinquant’anni perché una piccola schiera di imprenditori ritenesse il benessere dei propri collaboratori una componente essenziale e propulsiva del business, e perché progettisti come Canali possano dichiarare di ritenere un “dovere morale” rendere le fabbriche attrattive e il “ritorno alla natura” un passaggio imprescindibile nella progettazione di questi anni come lo è stato nell’epoca della costruzione delle grandi cattedrali e dei grandi monasteri: lo sguardo sul verde, il valore olistico e curativo del verde, fosse pure l’hortus conclusus al quale dedicare un pensiero di ammirazione e una riflessione lungo. “L’attenzione verso la dimensione quotidiana del lavoro, dell’integrazione pratica, fattiva, fra uomo e natura, a lungo dimenticata, è uno degli elementi più spiccati di questa nuova edizione del Festival della Green Economy”, osserva Filiberto Zovico, fondatore di ItalyPost, portale di approfondimento sul mondo delle imprese e dei territori e promotore dello stesso festival, che da qualche anno è programmato a Parma e che, nei quattro giorni della kermesse, si popola di piccoli cartelli indicatori verdi utili per convogliare migliaia di interessati agli incontri nei palazzi più belli della città, compresa la Pilotta restaurata molti anni fa dallo stesso Canali. “Dopo anni di ideologia attorno alla sostenibilità che ha portato, non di rado, a reazioni ambivalenti, quando non negative, comunque superficiali, mi pare si vada delineando un maggiore pragmatismo”, dice ancora Zovico, sebbene non vi siano dubbi che uno dei momenti più alti del festival sarà il dialogo fra Stefano Mancuso e Mario Brunello, celebre violoncellista e direttore di Stresa Festival, che nelle ultime settimane ha orchestrato uno spettacolare e dolente sit in musicale per protestare contro l’abbattimento dei larici per l’improbabile pista da bob delle Olimpiadi di Cortina.
 

“Un albero una ciaccona”, è il titolo dell’incontro, accompagnato appunto dalla potente ciaccona di Bach, così come “un albero, una giornata di lavoro migliore” potrebbe essere la filosofia-guida dell’opera di Canali, che spinge sempre i committenti a investire nel verde, e nella sua cura, rispetto ai materiali, che predilige poveri umili, essenziali. Il suo è un processo che, come peraltro scrive una critica di valore come Elisabetta Pieri, parte dalla lettura delle tracce fisiche dell’architettura per ridefinire, attraverso un paziente laborioso rimontaggio, i segni dello spazio, della città e del territorio. Canali ha assorbito tutti questi elementi nella prima infanzia, osservando gli alberi e il torrente nel piccolo podere dove la sua famiglia trascorreva i fine settimana. L’amore per la natura e soprattutto per luce, “che nelle fabbriche deve essere zenitale”, è nata da quei pomeriggi trascorsi a osservare gli spazi creati dalla luce, i riflessi ma anche l’illuminazione perfetta che viene dall’alto, “la luce degli artisti, tanto utile anche per chi crea oggetti preziosi”. Sarà un caso, ma due delle ultime collezioni più amate dalla stampa internazionale prendono entrambi spunto da due edifici: la grandiosa Chatsworth House nel Derbyshire, residenza dell’ultima delle celebri sorelle Mitford, Deborah, per Erdem, e Villa Noailles, noto come “le chateau cubiste” a Hyères, sulla Costa Azzurra, per Virginie Viard, direttrice creativa di Chanel.

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