I vanti della moda

I sogni confusi e le illusioni degli studenti di moda

Claudia Vanti

Mentre molti direttori creativi nelle ultime settimane hanno lasciato i grandi marchi, nelle scuole si insegna ancora a disegnare i capi in maniera piuttosto classica, lasciando fuori la parte dedicata al marketing: così si alimentano le illusioni

Il mestiere più bello del mondo. Ognuno ha la sua idea di quello a cui corrisponde questa definizione, ma per migliaia di studenti delle scuole di moda si tratta sicuramente di una carriera da designer, o da direttore creativo, indistintamente. Il che non è neppure la stessa cosa, e già questo indica un problema. Quale problema? L’impermeabilità di molti programmi delle scuole e delle università (pubbliche o private) alle attuali esigenze della progettazione della moda, dalla concezione alla gestione della collezione e dell’identità di un brand. Mentre in poche settimane abbiamo visto molti creativi lasciare i marchi che avevano fondato (Dries Van Noten), o che guidavano (Walter Chiapponi, Andrea Incontri, Pierpaolo Piccioli), per ragioni personali o strategie dei board, nelle scuole si insegna ancora pensando a una figura di designer piuttosto classica, rappresentata ai massimi livelli da figure come appunto Piccioli o Van Noten, e incentrata sulla capacità di disegnare i capi e immaginare una collezione; così facendo, però, si alimentano illusioni. La moda di oggi richiede infatti competenze non solo creative, come dimostra peraltro l’attuale tendenza al turn over ravvicinato di stilisti e direttori creativi: da Alessandro Michele (fine 2022, da due giorni nuovo direttore creativo di Valentino) a oggi, passando per il fine ciclo molto soft di Sarah Burton in Alexander McQueen, i cambiamenti sembrano dettati da esigenze innanzitutto commerciali e di marketing.

 

 

Questa tendenza genera la ricerca continua, a volte molto approssimativa, dei futuri golden boys (girls decisamente meno) dello stilismo. Il profilo ideale li vuole giovani ma non giovanissimi, dunque dai trent’anni in su, attenti tanto allo zeitgeist quanto al mercato e naturalmente molto abili nell’intercettare i desideri dei clienti. Quindi, ancora, provvisti di una visione estetica personale, meglio se facilmente riconoscibile e spendibile anche nel più minuscolo accessorio “entry level”, fosse pure una cintura o un paio di orecchini. In buona sostanza, il profilo di un abile operatore del marketing, che difficilmente può suscitare passioni e irrefrenabili desideri di acquisto, quasi che l’eccesso di passione spaventasse i mercati e gli investitori. L’elemento creativo, una competenza che richiede studio e allenamento, e non certo un talento innato o infuso, è la base di una formazione che, sull’onda della storia del costume (materia spesso poco invitante quando si traduce in nomi e date e carenza di analisi di capi, linee, volumi, quando, infine, non è fenomenologia della moda), perpetua il mito del creatore solitario, geniale, spesso incompreso, in anticipo sui tempi, ma infine, benché non sempre, basti pensare a Josephus Thimister e Josep Font, baciato dal successo. A parte che bisognerebbe trovare il coraggio di dire a questi studenti iconoclasti e incendiari a parole e derivativi e noiosi sulla carta che il design non è alla portata di tutti (ma questo, soprattutto per le scuole private, è un argomento taboo), ciò che viene valorizzato poco sono le competenze tecniche.
 

Così come l’uso di un vocabolario adeguato e pertinente, sarebbe parecchio utile la conoscenza esaustiva dei materiali, siano questi tessuti classici, addirittura desueti, oppure fibre di ultima generazione, e come ovvio dei processi produttivi, della filiera e del know how di prossimità, indispensabile anche mentre si fantastica su una sostenibilità avveniristica fatta di materie ricavate da scarti di ogni tipo.
 

Nel mondo della moda mancano anche le competenze scientifiche, non necessariamente per i designer ma utili per aprire carriere in ruoli complementari alla progettazione, dalla chimica all’ingegneria gestionale e all’archivistica. Senza specializzazioni che tengano conto del contesto nel quale operare, il risultato è l’agire come corpi estranei in un settore mai del tutto compreso. Le competenze informatiche e linguistiche (un esame di inglese in molte università è ancora un optional) invece sono necessarie anche ai creativi, senza nulla togliere alle capacità manuali: trasformare un’idea in qualcosa di immediatamente comprensibile, come resa visiva e con le necessarie specifiche tecniche è il primo tassello di un design improntato alla riduzione degli sprechi.
 

E infine il metodo: la progettazione è un processo che deriva da una metodologia applicata, dall’analisi della forma-vestito in relazione a sé e al mondo, tenendo ben presente l’idea di chi si è e che cosa si intende rappresentare (l’identità visiva del designer e del brand) rispetto all’obiettivo da raggiungere, che è naturalmente la vendita della collezione, e di come arrivarci, cioè con quali “attrezzi” (colori, tessuti, linee, forme). Chissà perché scuole e università hanno paura di usare la parola “metodo” nella moda - forse temono un effetto spoetizzante - quando invece designer come Francesco Risso e J. W. Anderson, con il loro lavoro dissacrante, a tratti surreale, rappresentano la migliore dimostrazione di quanto la lucidità di intenti e un metodo rigoroso possano unire il linguaggio più comprensibile e semplificato dell’industria di oggi con la vocazione umanistica verso l’arte. Non è semplice, ed è il motivo per il quale la moda è una questione seria, che va studiata e insegnata seriamente.

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