(foto Ansa)

(1938-2023)

Con Lorenzo Riva scompare il mondo dei "divini"

Fabiana Giacomotti

Riflessione comparativa e un filo nostalgica per il mondo rivoluzionario che superava l'ostracismo sociale con comportamenti rivoluzionari e passione per il bello

Non si era ritirato da molti anni, Lorenzo Riva, morto ieri nella sua Monza a ottantacinque anni per complicazioni da Covid che hanno avuto ragione del suo fisico mantenuto asciuttissimo con impegno e costanza. In realtà, nonostante avesse ceduto il suo marchio, gli capitava di disegnare ancora qualche abito da sposa, magari per le nipoti delle amiche, ed erano sempre piccoli capolavori di grazia e leggerezza e di volumi perfetti. Eppure, per molti studenti e anche studiosi di moda, questo amante del bello, che dalla metà degli Anni Settanta ai primi Anni Ottanta aveva disegnato Balenciaga (se vi capitasse di visitare il museo dedicato al più grande couturier del Novecento nella sua città natale, Getaria, nei Paesi Baschi, vi trovereste tre abiti suoi), era quasi sconosciuto. Riva apparteneva a quella generazione che trova “divini” gli abiti ben fatti, le persone di gradevole aspetto e che disdegna gli orli cuciti a macchina (come peraltro dovrebbe fare chiunque perché stroncano la linea di una gonna, ma ormai siamo abituati altrimenti). Un mondo, duole dirlo, finito. Per molti incomprensibile.

 

Per le infinite Kim Kardashian del mondo, Balenciaga non è stato l’uomo che trasformava anche le bruttine o le chiattone in donne di charme, ma è un “brand” che vende stivaletti a punta lunga come poulaine medievali (ah no, non sanno che cosa fosse la poulaine); per gli osservatori è una furba impresa che si diverte a prendere per i fondelli i suoi stessi clienti spacciando loro sacchi di plastica e asciugamani da bagno in forma di borse e gonne a prezzi stellari. Quello di Riva era un mondo ormai in via di esaurimento, orgogliosamente ancorato al passato e una semantica, e una pratica, di moda ormai ò permettersi e soprattutto capire la couture va a cercare. Sono poche migliaia di persone in tutto il mondo e, sebbene non siano necessariamente maturi, anzi spesso si tratta di clienti giovanissime, appartengono a mondi lontani da quello occidentale.

Duole (nuovamente) dirlo, ma ormai chi capisce di couture e apprezza un bel ricamo e un taglio ben fatto sono i paesi islamici, non quelli europei. Chi apprezza quel mondo fatto di gesti attenti e di lentezza manuale ha tempo e mezzi da dedicare a questa bellezza, e raramente siamo noi che riteniamo interessante dedicare articoli alle natiche scoperte di Elodie. La madre di Lorenzo Riva era una modella della sartoria Merveilleuse che oggi si trova citata solo nei libri di storia della moda: impresa meravigliosa davvero, era nata nella città della moda dei primi del Novecento, Torino, aveva succursali a Milano e a Roma. Sinonimo di camicette pieghettate per tutti i primi Anni Dieci e Venti del Novecento, epoca d’oro del capo, ne confezionava nell’ordine di trentamila all’anno: è esistito un pret-à-porter nazionale importante prima che arrivasse la definizione ufficiale ad assegnargli una cronologia condivisa ma del tutto falsa, ma per farla breve diciamo che la Merveilleuse, osteggiata da Mussolini fino a quando si rassegnò a cambiare nome, chiuse proprio negli anni di affermazione del pàp, i primi Sessanta. E proprio in quegli anni, il figlio della modella monzese, divenuta sarta, iniziava a compiere i primi passi nella moda. A undici anni il primo disegno, nell’adolescenza gli studi da Marangoni (il fondatore Giulio, non l’attuale network di scuole), a diciotto la prima sfilata: ci sono stati periodi in cui impegnarsi nel lavoro e mantenersi prima dei venticinque-trent’anni non era solo una necessità, ma anche motivo di orgoglio. Riva raccontava spesso di essere stato bullizzato non tanto per la sua omosessualità, quanto per la sua eccentricità: alla fine degli Anni Ottanta, mi capitava di incontrarlo a St Tropez mentre saliva per le stradine dietro al porto in pantaloni larghi di lino bianco, petto nudo ornato di sautoir d’oro, sandali francescani, circondato dalla sua piccola corte, simpaticissimo, la battuta folgorante. Era sopra le righe perfino lì, nell’ambiente della Madrague di Brigitte Bardot. Non oso immaginare che cosa fosse stato per lui, nei suoi completi rosa e bianchi, crescere in un ambiente provinciale come quello di Monza, quello che oggi lo piange come il suo figlio diletto, secondo solo alla regina Teodolinda. Diceva che dopo Renato Balestra, (morto due anni fa e di cui si festeggerà il centenario della nascita l’anno prossimo) in Italia non fossero rimasti più couturier. Non è vero: ci sono Pierpaolo Piccioli, Maria Grazia Chiuri con la loro idea diversa ma complementare di couture contemporanea, c’è Giorgio Armani che alla couture è arrivato dopo aver cambiato la storia della moda pronta, ci sono Antonio Grimaldi, Luigi Borbone, Sylvio Giardina. Ma anche questo vezzo narrativo di Riva racchiudeva una piccola-grande verità. Il mondo delle “divinità” della moda è scomparso. 

 

C’è ancora il “signor Valentino”, Valentino Garavani, a cui la città di Voghera ha intitolato il suo teatro, previo importante restauri a spese del festeggiato. Ma si è ritirato da molti anni, non interviene più pubblicamente ad alcuna celebrazione in suo nome. E’ scomparso, e questo è un bene, il mondo nel quale il compagno di vita del couturier, veniva definito pudicamente e ipocritamente “socio d’affari”: quasi sempre lo era davvero, ma era ovviamente molto di più. Nel caso di Riva era, anzi è, Luigi Valietti. Una vita insieme, anche dopo l’affievolirsi della passione. Se c’è una cosa che dell’omosessualità non si racconta mai, è la capacità di superare le contingenze della passione, in nome del sentimento, ben più forte, dell’amicizia e dei valori comuni. Quest’aspetto dell’esistenza, rivoluzionario anche nel mondo etero cis, né Riva né altri l’hanno mai dichiarato davvero.

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