Immagine di Tod's durante la presentazione della collezione estate 2024 ai Laboratori Ansaldo

il foglio della moda

Lo stile di Diana Vreeland, cent'anni dopo

Antonio Mancinelli

Chiacchierata con Rachel Tashjian, giovane critica di moda del “Washington Post” che intende fare di se stessa un’opera d’arte. La sua newsletter “Opulent Tips”, opulenti consigli a inviti, è diventata un oggetto di culto, i nuovi critici di moda la copiano, convinti che sia il massimo della modernità

Quando glielo diciamo, finge di non crederci. Forse non lo sa davvero. Non molto tempo fa, due giovani giornaliste italiane di moda del genere "la new wave della critica fashionista sono io" si sono insultate via social accusandosi a vicenda di aver copiato un suo articolo e di millantare l’appartenenza alla lista dei mille e cinquecento destinatari della sua bislacca newsletter digitale "Opulent Tips": i pochi che la ricevono tendono a testimoniarlo, cioè a vantarsene, diffondendone degli screenshot. Rachel Seville Tashjian è la penna di punta della cronaca di stile e stili di vita del "Washington Post", dove è stata chiamata dalla collega senior Robin Givhan, l’unica giornalista al mondo ad aver vinto un Pulitzer con un articolo di moda, per rivitalizzare la leggendaria rubrica "Style Memo" con recensioni di sfilate e cronache di costume. Ad averla resa celeberrima nel settore è però questa missiva elettronica deliziosamente folle, densa di indirizzi, pareri, nomi di designer sconosciuti, consigli non richiesti espressi in uno stile chic-dadaista che prevedono un profluvio di punti esclamativi e caratteri in stampatello. Qualche esempio: "Smettetela di chiedere a Matthieu Blazy di risistemare i marchi degli altri e dategli il suo!!!", "Ora è il momento di sviluppare i proprio interessi! Stiamo entrando in un periood di grande gusto!".

Ogni numero ricorda una versione leggermente maniacale della leggendaria rubrica "Why don’t you" che Diana Vreeland compilò per Harper's Bazaar dal 1936, divenendone fashion editor due anni dopo e prima dello scoppio della seconda Guerra mondiale direttore. In poche righe, suggeriva ai lettori azioni dadaiste, come per esempio lavare i capelli biondi dei propri figli nello champagne sgasato "come fanno in Francia", o di ordinare un baule in pelle di alce di Hermès "per il retro della tua macchina". Tashjian consegna missive settimanali su tutto, dai piaceri gustativi del pranzo a un'intervista con un feticista delle pantofole di pelle. Inscenando un’autorevolezza deliziosamente folle, "Opulent Tips" è riuscito a catturare un seguito devoto di attori del potere dei media e dell’industria dell’abbigliamento. La più grande attrazione non è solo la sua esclusività percepita o il tono eclettico,  ma anche il dissotterramento di vere pepite della storia della moda, per esempio una digressione sui "matrimoni spirituali" della stilista americana Mary McFadden. "Vorrei aver avuto un piano grandioso e subdolo quando ho lanciato la newsletter nell’ inverno demoniaco del 2020. E invece no, glielo assicuro. Soprattutto, mi mancava un luogo dove poter giocare senza remore, con un tono anche frivolo: ero un po’ stanca di ricevere messaggi diretti su Instagram e Twitter che mi chiedevano lumi sui migliori stivali da moto, su film ignoti dai costumi strepitosi, o se fosse una buona idea acquistare prodotti dai brand che avevano scoperto su Instagram. Scrive: "Amo la moda perché, per comprendere questa strana danza di stoffa, status sociale, glamour, vanità e movimento, aiuta davvero impegnarsi ad essere una persona che vive immersa nella realtà". Al Financial Times ha dichiarato: "È tutta una questione di mix postmoderno. Mi capita di pensare alla socialite americana Nan Kempner che, vestita in Yves Saint Laurent Couture, organizzava cene a base di spaghetti al pomodoro serviti su porcellane di Limoges. Fa parte di questa lunga tradizione di snobismo senza snobismo". Di questo "snobismo senza snobismo", Tashjian vuole essere una campionessa assoluta. Ci vediamo su Zoom il giorno del Ringraziamento. Ma poiché da lei sono le undici del mattino, sta aspettando i genitori per il pranzo. Quando appare sullo schermo indossa un pullover marron glacé in pieno stile quiet luxury - potrebbe essere di The Row o di altro marchio di lusso estremo e sussurrato –seduta su un divano vintage in pelle craquelé. Fuori campo, abbaia il cagnolino Ritz, che appare in molte foto del suo account Instagram, "The Prophet Pizza" @prophetpizza. 

Trentacinque anni, lontane ascendenze armene, diafana, bionda innaturale ("da sempre ho desiderato schiarirmi i capelli"), laureata in letteratura inglese e storia dell'arte all’'Università della Pennsylvania, prima del "Washington Post" ha esordito su "Vanity Fair America", quindi è stata vicedirettore della rivista indipendente "Garage", in seguito fashion critic di "GQ", direttore delle fashion news online di "Harper's Bazaar", spaziando dall’evoluzione dello streetwear alla diplomazia di Biden, dalla Royal Family (quando è stato incoronato Carlo ha scritto: "I mantelli di velluto rosso bordati di ermellino, la corona da cinque libbre, vesti d’oro sopra vesti d'oro trascinate su tappeti d'oro: sembrava una sfilata di Versace allestita in una RSA") fino all’amministrazione Trump.

Il suo portfolio di scritti include pubblicazionicome "Artforum", "Bookforum" e "New York Magazine". Diciamo che i suoi articoli – che a noi italiani ricordano vagamente quelli di Irene Brin, Camilla Cederna, Natalia Aspesi e anche un po’ di Brunella Gasperini – hanno il pregio di rinnovare l’osservazione della moda come fenomeno di costume e di evoluzione sociale. Esempio: le chiediamo se è vero che in seconda liceo avesse composto un racconto un cui una ragazza va a un appuntamento al buio con un potenziale fidanzato che però si presenta con delle orribili Teva ai piedi, e lei si alza e se ne va (il racconto finiva lì).  Quando le si fa notare che da noi ogni ragazza di buonsenso avrebbe fatto lo stesso, a meno che le sneaker non fossero Prada o altro marchio similare, assicura: "Dimenticavo il vostro senso dello stile. Ma ciò in cui sbagliavo – o meglio, sarebbe sbagliato scriverlo ora - è di ritenere i Teva meno cool di Prada. Ogni brand ormai è cool, questo è il punto. Tutti possono indossare tutto. Non esistono gerarchie. A noi della nuova generazione va il compito di raccontare questi cambiamenti senza formulare più classificazioni, ma guardando quello che succede nel mondo, la condizione femminile, l’utilizzo più o meno imbrigliato della creatività, fino a ogni fenomeno della cultura pop, dalle serie tv alle novità musicali. Sono una critica di moda, ma allo stesso tempo mi sento una reporter". Nella comunicazione di moda, Tashjian è considerata una sorta di minidivinità in grado di compiere piccole rivoluzioni. "Ho grande ammirazione per tutte le colleghe che hanno più esperienza di me, ma c’è da notare un’altra cosa: oggi la maggior parte delle nostre esperienze con gli abiti avviene online, mentre venti o trent’anni fa questo succedeva quando entravi in boutique, a meno che non si fosse invitati alle sfilate. Da un lato, quindi, c’è minore esperienza diretta di come si realizzi un abito; dall’altro, c’è un numero sempre più vasto di lettori: ecco, di questo fenomeno forse i critici della mia generazione sono più consapevoli. È nostro compito, e io almeno io cerco di farlo, tenere a mente tutti gli interessi, le preoccupazioni, le ansie e le inquietudini di chi appartiene alla famigerata Generazione Z e vuole saperne di più di aneddoti e storia della moda". 

Andiamo diretti al punto, che il tacchino è in forno. In Italia, anzi in Europa, esiste la convinzione che i suoi colleghi siano minacciati dalla scure degli inserzionisti pubblicitari, pronti ad abbatterla per un giudizio meno che generoso, e che invece gli anglosassoni siano molto più liberi di dire la loro… Ritz abbaia. Rachel ci pensa un po’ su: "Il rischio del ricatto c’è anche qui, ma di certo non lo avverto al "Washington Post". Credo che questo faccia parte del privilegio di lavorare per un giornale americano. Mai pensare "Oh, come la prenderà il brand?" Di sicuro i rapporti sono più sfumati nelle riviste, ma ho sempre verificato - e non so se sia valido anche per il contesto mediatico europeo – che queste relazioni sono sempre una sfida, anche in senso positivo. Se mi viene affidato il compito di scrivere di uno stilista o se scelgo di scrivere di un designer che so essere sensibile alle critiche, mi pongo sempre la stessa domanda: come posso raccontare questa storia con onestà? Ecco, essere consapevole di certe connessioni economiche mi porta a muovermi liberamente nel racconto senza però mai perdere il rispetto per l’azienda o il designer di cui scrivo. E dire a sé stessi "Ehi, stavolta scriveremo qualcosa che non sarà esattamente la frase standard che vuole l’investitore, ma lo faremo con raffinatezza e con onestà" fa sì che i lettori ci percepiscano come persone perbene, perché si rendono conto che non siamo così ubbidienti solo a chi pianifica i giornali dove scriviamo"

Osserviamo che anche la sua autoironia sia una novità rispetto alle colleghe che l’hanno preceduta. "Si può essere sofisticati e intellò e allo stesso tempo scherzare con se stessi. Molti giornalisti di moda che si affacciano ai media negli ultimi dieci anni ritengono di dover diventare un personaggio, anzi: un brand. Alcuni inorridiscono: io no. Ammetto che mi diverte l’idea di rendere la mia vita più interessante: penso agli scrittori che ammiro degli anni Sessanta o Settanta che avevano una personalità anche nel look. Intellettuali celebri, come James Baldwin e Susan Sontag, hanno coltivato un senso visibile dello stile personale e un interesse per il mondo estetico e per l’autorappresentazione. Mi sento vicina a quella maniera di stare al mondo". Rachel sorvola sul tema delle regalie ad personam da parte delle maison ("ho un gusto così particolare, l’ho battezzato "luxury bizarro", che preferisco comprarmi tutto da sola") e quando si arriva al punto di chiederle se per lei - visto che chiunque ormai si sente un critico togato su TikTok o Instagram - siano ancora necessari i giornalisti professionisti di moda, non ha dubbi: "Tendo a non scoraggiare qualsiasi tipo di curiosità, critica o commento. Credo che se realmente ci siano giovani che ritengono davvero stimolante impegnarsi con la critica, l’unico suggerimento è di approfondire le loro fonti per far sì che i loro follower imparino di più: è un impulso straordinario e noi dovremmo essere entusiasti che stia accadendo. Voglio dire, non succede in nessun altro campo dell’arte e della cultura. Il livello del discorso sulla moda, in questo momento, è davvero esaltante". Rachel, sia sincera. Crede davvero che ci sia ancora bisogno di critici di moda nel 2023, anzi quasi nel 2024? "Ora più che mai. L’industria della moda è molto più grande di quanto sia mai stata prima. E penso all’impossibilità, per un lettore che non se ne occupi, di orientarsi come consumatore. Non si riesce a capire cosa conta e cos’è davvero importante: chi ti sta mentendo? Chi dice la verità su ciò che produce? È importante avere figure di riferimento che diano risposte a tutte queste domande". Magari tornando a come scrivevano le nostre colleghe del Novecento, come Diana Vreeland, Carmel Snow o Adriana Mulassano? "Magari, sì"

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