(foto da Wikipedia)

Cose di questo mondo

La riscoperta dell'arte eclettica di Suzanne Jackson, nuova protagonista delle Furla Series

Giorgia Motta

Ha molto a che fare con la passione per gli scarti della natura che già portava a casa da studentessa di arte e di danza. Lei rifiuta come sempre le categorie. Anche quella, finora rimasta segreta, di modella all’epoca della celebre Ebony Fashion Fair

Non è la prima volta che l’opera di Suzanne Jackson arriva in Italia. Qualche mese fa, la Galleria Kauffmann Repetto espose la sua “Swim-wildlife refuge”, opera della metà del decennio scorso, in occasione della mostra “Re-materialized: the stuff that matters”, che riuniva i lavori di artiste di formazione ed esperienze diverse (c’erano, non a caso, anche Rosita e Angela Missoni) attorno all’uso di materie tessili o di scarto: tela, garza, rete, pittura acrilica. Interessante, ma poco apprezzabile senza un approfondimento e una focalizzazione sulla vita di questa artista straordinaria nata nel 1944 in Missouri e cresciuta nei territori dello Yukon, all’epoca non ancora parte dello stato dell’Alaska, che ha messo a frutto un’esperienza eclettica nel balletto, nel teatro, nella poesia e, dato che riveliamo solo adesso, nella moda, per nutrire un immaginario artistico che esplora le potenzialità tutte dell’arte. Dalla produzione iniziale, di matrice pittorica e figurativa, popolato di personaggi, animali e riferimenti alla natura, il lavoro di Suzanne Jackson si è infatti evoluto negli anni approssimandosi progressivamente all’astrazione “fino ad approdare all’elaborazione di un vocabolario molto personale in cui la pittura assume una dimensione scultorea ed ambientale” come dice Bruna Roccasalva, curatrice e direttrice artistica di Fondazione Furla, che dopo un incontro alla fine dello scorso anno al MoMa di New York, dove l’artista ha opere nella collezione permanente e lavora anche in progetti di formazione, ha deciso di dedicarle la mostra “Somethings in the world”, ovvero la quinta edizione del progetto “Furla Series”, frutto della collaborazione fra Fondazione Furla e la Galleria d’Arte Moderna attorno alla figura di grandi artiste: una partnership che, benché il programma della Fondazione sia attivo dal 2017, è iniziata nel 2021 per promuovere ogni anno progetti espositivi di incontro e dialogo fra maestri del passato e protagonisti del contemporaneo. “L’opera di Suzanne Jackson cancella i confini fra linguaggi” osserva Roccasalva, introducendo un percorso che, dal 15 settembre fino al 17 dicembre, ne esplorerà attraverso ventisette opere, anche di grandi dimensioni e in più casi inedite, il corpus creativo: dai dipinti onirici degli Anni Settanta fino alle sperimentazioni radicali delle più recenti opere “anti canvas”,  seguendo l’elaborazione di un vocabolario molto personale che solo superficialmente si può accostare alle opere di Burri, dell’arte povera e perfino di quell’arte del recupero oggi molto di moda e molto apprezzata dai media per via dell’ovvio gradiente sostenibile. Che però non è una scoperta di oggi, sebbene i mutamenti del clima le “siano evidenti come a chiunque altro” e nemmeno una scelta dell’ultimo periodo. Foglie e alberi e la manifestazione della natura in tutti i suoi elementi, con una netta ed evidente predilezione per l’aria, fanno parte del patrimonio immaginifico di Jackson da quando, molto giovane, percorse a tappe con la sua famiglia, in auto, un altro percorso: dallo Yukon a san Francisco, “osservando le foglie degli alberi”, i colori della costa del Pacifico che andava stemperandosi dai colori cui delle montagne dell’Alaska alla luce dorata della California. L’incontro con la moda, di cui parliamo nel corso di una lunga telefonata Venezia-Savannah, in Georgia, dove vive e ha il suo studio da molti anni, incantata dalla natura rigogliosa e dai legni sbiancati dall’acqua e le valve delle conchiglie che trova sulla costa e che capita incorpori nelle sue opere, avviene nella tarda adolescenza, attraverso una serie di contatti avviati dalla madre, Ann Marie Jackson, stilista e membro del Nafad (National Association of Fashion and Accessories Designers). All’epoca, Suzanne studia arte alla San Francisco State University e danza al Pacific Ballet. Sa usare una macchina da cucire, come tante ragazze della sua generazione, ma se si avvicina alla moda è per via del fisico alto e slanciato, modellato dalla danza e di quel favoloso progetto che per mezzo secolo, dal 1958 al 2009, mise in relazione la moda mondiale, e in particolare quella europea di Yves Saint Laurent, Valentino, Pierre Cardin, Givenchy, Paco Rabanne, Jean Paul Gaultier, con le comunità afro-americane all’alta moda e che prende il nome di Ebony Fashion Fair. Che qualcuno conosca da questa parte dell’atlantico la storia di Eunice Walker Johnson, della casa editrice fondata dal marito John H. Johnson e dal ruolo che quello show annuale itinerante ha rappresentato nella storia delle comunità black d’America, è qualcosa che la stupisce moltissimo: dietro promessa che non avrei pubblicato le foto del suo composit per questo articolo (“magari se scriverai di moda degli Anni Sessanta”), me lo invia su whatsapp: sotto il nome “Suzanne” compare in una serie di foto in bianco e nero una ragazza sottile e bellissima con i capelli cotonati, anzi “bouffant” come si diceva all’epoca, un abitino sbracciato bianco, décollétées anzi “pumps” in tinta dal tacco sottile, un caban portato a mano in posa plastica. Sul retro, molte altre foto, di sfilata e pubblicitarie. Una parentesi lontana nel tempo e “divertente”, che Suzanne Jackson non include più nel racconto della sua vita, se mai ne ha fatto davvero parte: semmai, attraverso la danza, ha conosciuto e apprezzato il mondo del costume, il ruolo narrativo dell’abito nel racconto del movimento. “All’epoca, a Los Angeles, la scena teatrale e quella artistica erano fortemente influenzate l’una dall’altra”. Insomma, anche per chi colleziona oggetti e parti “spare” della vita, per chi ha trovato vita e poesia nella spazzatura, mandando naturalmente ai pazzi l’elegantissima mamma, come questa artista che innesta piume e conchiglie e pittura su tela, che inventa terze dimensioni pur giurando che “la pittura non morirà mai” proprio per la sua dimensione onirica e le infinite possibilità di creazione di mondi paralleli che offre, in fondo non vale la pena di raccogliere e recuperare proprio tutto. Già nel 1967, infatti, Suzanne si trasferisce a Los Angeles, dove studia con Charles White ed entra in contatto con la comunità degli artisti locali, tra i quali David Hammons, Timothy Washington, Alonzo Davis, Dan Concholar, Senga Nengudi, Gloria Bohanon, Betye Saar ed Emory Douglas. Nel 1968, a ventiquattro anni, dopo aver venduto la sua prima opera per 300 dollari, apre nel suo studio d’artista una galleria d’arte, la Gallery 32, esperienza che gli esperti definiscono “leggendaria”, e che in soli due anni di attività diventa un importante punto di riferimento per la scena artistica underground. Suzanne Jackson vi espone gli artisti a cui è legata, curando per la prima volta sulla West Coast una mostra dedicata esclusivamente alle artiste di colore. Più che di campo, è una scelta di genere: nelle donne, Jackson riconosce quella “capacità di cura” e quell’approccio naturalmente empatico nei confronti della vita, quella duttilità che è parte integrante della sua opera. Non a caso, delle opere esposte nella collezione permanente della Galleria d’Arte Moderna, che ha visitato per la prima volta lo scorso febbraio, immaginando “dialoghi” e composizioni e predisponendo una di quelle opere di grandi dimensioni per le quali era nota all’università e che sua madre ovviamente non apprezzava di vedersi arrivare in casa, l’hanno colpita le sculture di Medardo Rosso, che paiono modellate da un soffio vitale, e i Segantini. Nel 1990 consegue un master in scenografia teatrale presso la Yale University e nel 1996 si trasferisce a Savannah come docente di pittura al Savannah College of Art and Design. Dal quale viene, sostanzialmente, inghiottita, a tratti dimenticata. Alla gente piace inquadrarti in una categoria precisa, giornalista, scrittore, “painterly painter”, nel suo caso anche “black artist”, e Suzanne non rientrava “abbastanza” in nessuna di queste. La sua riscoperta è cosa relativamente recente, ed è ovviamente legata all’aspetto materico, di recupero, della sua opera, e a un contenuto politico che tutti credono di ravvisare e che, parlandole, si ha l’impressione che non ami, continuando appunto a detestare le categorie:  nel 2022 le ha dedicato una personale (“Listen’ N Home”) The Arts Club of Chicago, e al contempo ha ricevuto premi e riconoscimenti prestigiosi, come il Jacob Lawrence Award, Academy of Arts and Letters a New York e un grant della Joan Mitchell Foundation Painters & Sculptors Grant nel 2019. “Quando ero un’artista figurativa, la gente diceva che, non essendo astratta, non ero rilevante, significativa. Quando il mio lavoro è diventato più astratto, si stupiva che non fosse più figurativo. Bè, non mi interessa. Faccio quello che mi sento di fare”.

Manifesto della Gallery 32

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