Ironico - cool. Sguardi sul mondo Fiorucci. Due pubblicità di archivio degli anni Settanta

Il foglio della moda

Interviste via zoom. Il grande Elio torna a ballare

Antonio Mancinelli

“Halston, Gucci, Fiorucci/he’s the greatest dancer”, cantavano le Sister Sledge nei Settanta. E il marchio che per primo trovò spazio in una discoteca, lo Studio 54, risorge con i mezzi della famiglia Bertarelli ma lo stesso metodo demo-colto del “jet set per tutti”. Come racconta il nuovo ceo Alessandro Pisani

Piccola premessa glottologica: nel linguaggio della moda il participio presente si porta molto. La sfilata spettacolare è “impattante”, una gonna a ruota “danzante”, un tessuto compatto “scattante”, il post del content creator (mai più chiamarli influencer!) “ingaggiante”, ovvero atto a scatenare una reazione che sia un commento, un like, una condivisione sui social, una risposta positiva a dare una sbirciatina al sito di ecommerce. È così che quando Alessandro Pisani, amministratore delegato del marchio Fiorucci rilevato da Dona Bertarelli, sorella di Ernesto, due volte vincitore della Coppa America, imprenditrice e filantropa naturalizzata svizzera, ripete per la terza volta e con una certa gravità che rilanciare il marchio italiano è un’impresa “sfidante”, sorge empatica la domanda se questa resurrezione stilistica sia un’operazione degna di così tanto impegno. In poche parole: ne valeva davvero la pena? E lui, epifanizzato sullo schermo via Zoom con un’allure quasi mistica - capo rasato, occhio indagatore, t-shirt oversize bianca - finalmente sorride e risponde che è esattamente quel che si è chiesto a lungo prima di accettare l’incarico e lasciare un ruolo già prestigioso ruolo nella Diesel di OTB, il polo del lusso italiano fondato da Renzo Rosso. “Sono entrato in punta di piedi alla fine dell’anno scorso e mi sono messo a studiare perché ammetto di non aver conosciuto bene gli ultimi anni di storia del brand che ora, finalmente, torna dov’è nato, cioè in Italia: anzi, più precisamente a Milano”.

Facciamo un passo indietro, giusto per inquadrare la situazione. Il critico d'arte Gillo Dorfles definì Elio Fiorucci "il Duchamp della moda" per le sue creazioni pop, ironiche e a modo loro visionarie. Fu lui, dal 1967, a insegnare ai giovani a vestirsi da giovani con il leggendario negozio-santuario in Galleria Passerella. Lo spazio, progettato dalla scultrice Amalia Del Ponte, era, come lo definiva lo stesso proprietario, un “grande mercato delle idee e delle cose”, “un caos ordinato” all’interno del quale era possibile trovare di tutto: dalle magliette ai pezzi di design, dal vintage ai profumi, fino agli oggetti più stravaganti scovati da Elio in giro per il mondo.

Il mondo lo riconosce come alfiere di uno stile che più internazionale non si può: “He wears the finest clothes, the best designers Heaven knows / From his head down to his toes / Halston, Gucci, Fiorucci / He looks like a still, that man is dressed to kill”, cantano le Sister Sledge nella canzone “He’s the Greatest Dancer”. Del resto, era stato proprio lui a sponsorizzare l’apertura del leggendario Studio 54 di New York, dove nello store interno staziona a lungo Andy Warhol: “Tutto è così divertente lì. È quello che ho sempre desiderato, tutto di plastica”, scrive nei diari.

Nel 1990, Fiorucci vende il marchio ai fratelli Tacchella di Carrera Jeans, che a loro volta lo liquidano alla società giapponese Edwin International: inizia così un’odissea di ambasce e vagabondaggi nella spirale di una progressiva dimenticanza. Edwin lo rifila all’altro megagruppo nipponico Itochu (insieme con Mila Schön) che non lo valorizza, anzi. Nel 2015, quando l’imprenditore creativo scompare, il brand cambia ancora proprietà: a comprarlo è Janie Schaffer, ex ceo di Victoria's Secret e fondatrice, con il marito, della linea di intimo Knickerbox, oltre a essere stata protagonista di una turbolenta vicenda che l’ha vista abbandonare dopo tre mesi la guida di Marks & Spencer. Le cose non vanno insomma come si sperava: “I precedenti proprietari hanno riattivato il marchio per riconnetterlo con le nuove generazioni. Ma noi vogliamo dargli un orientamento più creativo e riposizionarlo nel lusso accessibile con una produzione tutta italiana e un’offerta molto inclusiva, tanto che gran parte delle creazioni saranno “gender neutral”», avverte il novello Ceo.

Nel 2022 la coppia cede, per un importo non reso noto, le proprie quote azionarie a Bertarelli, che lo riporta a Milano, dove ci sarà il quartier generale (“è prevista l’apertura di una casa Fiorucci, uno spazio multifunzionale per il nostro ufficio stile ma anche luogo di aggregazione e magari anche location per ospitare giovani designer e dar loro la possibilità di sfilare”, assicura Pisani) con una ventina di persone attive in azienda, pur mantenendo gli uffici londinesi con la loro ventina di posti di lavoro, concentrati su alcune funzioni come l'e-commerce. A Pisani anche l’onerosa scelta di nominare un direttore creativo: a essere scelta è Francesca Murri, che ha lavorato in maison del lusso come Versace, Armani, Gucci, Givenchy e Ferragamo occupandosi di prêt-à-porter, ma anche e soprattutto di pelletteria. La stilista svelerà i suoi primi quindici look il 21 settembre, durante la fashion week. “Volevo una persona “di mestiere” non un influencer o qualcuno che arrivasse dalla comunicazione: qualcuno che fosse in grado di lavorare su un progetto come se fosse una start-up, ma nello stesso tempo avesse un polso sicuro del mercato. Questo perché la nostra missione sarà duplice: far conoscere ai giovanissimi la figura, la storia e lo spirito lieve e giocoso di Fiorucci e, contemporaneamente, riproporlo aggiornato ai suoi fan di quando era al massimo successo. Le aspettative sono molto alte, il modo di fare moda di Fiorucci era così precipuo e innovativo che, se ci pensa, riporta alla mente più un’atmosfera, un modo di stare nel mondo che una serie di prodotti specifici”, precisa il manager. Ci scusi, ma non è proprio questo a terrorizzarvi? Quella malizia aggraziata, quell’irriverenza gentile, quella sfrontatezza garbata su cui era fondato un intero immaginario così coincidente con il suo fondatore e non è ancorabile a un oggetto specifico, non vi spaventa? “No. Beh, insomma. Diciamo che per ogni passo che facciamo, ci chiediamo cosa avrebbe fatto Elio al nostro posto.

Sicuramente avrebbe usato le tecnologie – e per questo potenzieremo l’e-commerce, mentre per la prima boutique monomarca fisica ci vorranno almeno due anni – ma avrebbe stabilito prima di tutto un rapporto diretto, sincero e onesto con i suoi clienti. Poi, per esempio, vorremmo studiare anche le potenzialità espresse dall’intelligenza artificiale, tanto assurda quando si parla di creatività e fantasia, quanto utile per tutta quello che riguarda la logistica, per esempio”. Pisani, ma ne è così sicuro sicuro? Quella di Fiorucci è stata una splendida avventura sentimentale, un allinearsi di astri irripetibile, dove lui ebbe l’intuizione, in un mondo dove non c’era né il web, né lo streaming tv, di mescolare abiti e arte, musica e letteratura, cibo e cultura, ironia e serietà, scardinando i canoni filo-borghesi che imperavano allora... Non è tutto così cambiato? Quanto e quale spazio c’è per ricreare uno stile di vita che era il risultato di una capacità di leggere le mutazioni e i cambiamenti sociali? “Ma sono esattamente questi i valori positivi che noi vorremmo riprodurre. Noi parliamo a generazioni che vivono in permacrisi, un’ininterrotta serie di preoccupazioni: noi, per fortuna, ne avevamo una, forse due. Ma tra il pianeta che brucia, le guerre, le epidemie, le tensioni sociali, un futuro che sembra negato, sono proprio quelli della Generazione Z ad aver bisogno di processo mentale ed emotivo che restituisca loro un po’ di serenità: non le sembra? Serve un approccio leggero, senza contare che esiste un “fattore nostalgia” che sta contagiando esattamente gli under 20: il successo di serie tv come Stranger Things o Gossip Girl sta proprio nel rimpiangere un’epoca che non si è vissuta perché non si era nati”.

Ma quindi non aprirete neanche un archivio? Chiediamo un po’ insolenti. Pisani sospira e con pazienza, esala: “Al contrario: stiamo rivedendo tutta la comunicazione di allora perché attraverso i segni visivi così potenti della cultura di Fiorucci, si potrà stabilire un ponte tra passato e presente”. Infieriamo: sì, però posizionare questo marchio tra il lusso cosiddetto “accessibile” vi sembra proprio un’idea giusta? “Sì. L'attuale posizionamento più commerciale, eccessivamente influenzato dal merchandising, verrà abbandonato. Il nuovo management vuole spingere su qualità, sostenibilità e creatività. Le spiego anche perché: la genialità di Fiorucci era mantenere una sorta di “elitarismo democratico”, di “jet-set per tutti”: se volevi un paio di scarpe buffe o un determinato abito o disco, o andavi da lui a Milano nel suo magico store o niente: non era snob perché era costosissimo, eppure lo era perché accoglieva il frutto di ricerche in tutto il mondo. È in questo senso che parliamo di lusso accessibile, anche per differenziarci da una moda che somigli troppo al fast fashion.

Proveremo a ricreare dei tratti comuni con elementi che con la moda non c’entravano nulla: ora la nostra missione è far rivivere quell'attitudine ludica inconfondibile e rimodellarne l'eredità dirompente per ispirare una nuova generazione. Riprenderemo la sua idea stringendo accordi con aziende che non hanno alcun legame con la moda, per proporre oggetti legati all'uso quotidiano: dobbiamo far rivivere quel gusto tutto italiano di contaminare diversi settori che fanno dell’eclettismo la chiave di volta dello stile Fiorucci. Alla domanda su cosa ne pensi, come uomo e come manager del recupero di marchi come Walter Albini e Mila Schön in Italia, Rochas e Patou in Francia invece di finanziare nomi giovani, dà una risposta interessante: “Non penso che una cosa possa escludere l’altra, entrambe hanno un valore e ognuna possa portare un potenziale di business. Ma, a differenza di quella francese, credo che la nostra industria abbia avuto e abbia dei marchi dai forti valori, non vedo perché non si possano riportare in auge quelli che più degli altri hanno espresso cultura, stimoli, letture sociali: ci vuole un approccio più strutturato rispetto allo sfruttamento commerciale di un nome per rilanciare un profumo”. Insomma, Pisani: possiamo dire che Fiorucci è stato un metodo, più che una singola persona o un semplice marchio? “Assolutamente”.

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