Elio Fiorucci (LaPresse) 

uffa!

Eve Babitz e quel berretto by Fiorucci che segnò il dominio della nostra moda

Giampiero Mughini

È morta pochi giorni fa la "party girl" per eccellenza. Se c’è una volta che per trent’anni e passa una città e una protagonista hanno fatto un tutt’uno, quello è il caso di Los Angeles e della Babitz. Il suo libro d'artista in onore di Fiorucci è una grande esaltazione della creatività italiana

Seppure non avessi mai posseduto un’auto perché sprovvisto di patente, ove avessi visto da qualche parte l’auto dalla carrozzeria coloratissima che i due geniali designer Andrea Branzi e Ettore Sottsass avevano progettato nei Settanta su commissione di Elio Fiorucci subito l’avrei comprata e messa in salotto. Purtroppo non è mai andata in produzione. Forse perché a quel tempo non avevo un soldo, non sono stato un praticante della religione fiourucciana da cui nascevano gli indumenti che nei Sessanta e Settanta portavano il suo marchio. Mi bastava guardarli nelle vetrine di quei suoi negozi milanesi che fungevano da trionfo della cultura pop in Italia. Mi piaceva tutto di quel frastuono di forme e colori che ne eruttava così come mi sarebbe piaciuto assistere all’elegante show (nella vetrina di non so quale dei suoi negozi americani) delle due splendide modelle che si cambiavano d’abito sotto gli occhi di tutti. Nel suo libro pubblicato a New York nel 1980 in onore di Fiorucci (Fiorucci. The book, mai tradotto in Italia) la scrittrice americana Eve Babitz dice che al tempo in cui Fiorucci aprì il suo primo negozio a Milano, nel 1967, non c’era una sola stazione radio italiana che trasmettesse le canzoni dei Beatles. In quel negozio la loro musica risuonava altissima da mane a sera.

Alt. Ho pronunziato il nome di Eve Babitz. Era nata a Los Angeles nel 1943, è morta pochi giorni fa a 78 anni. Quanto allo stare nelle vetrine le più sofisticate della società americana, lei c’è stata tutta la vita. Una "party girl", di quelle che quando entravano in una festa ne cambiavano la chimica, e senza dire che quelle adunanze a Los Angeles le ha raccontate in molti dei suoi libri, ora romanzi ora saggi (banale distinzione che nel suo caso vale ancor meno del solito). In Italia sono stati tradotti da Bompiani ma confesso di non averli mai letti. Se c’è una volta che per trent’anni e passa una città e una protagonista hanno fatto un tutt’uno, quello è il caso di Los Angeles e della Babitz. Lei aveva 20 anni nella foto del 1963 che la ritrae nuda mentre sta giocando a scacchi con Marcel Duchamp nel museo di Los Angeles dove era in corso una mostra dedicata al padre del surrealismo. A proposito di quella foto, lei ci teneva a sottolineare che come misura di seno aveva la cinque. Quando nel 1966 incontrò Jim Morrison, il frontman dei Doors, ci mise tre minuti a proporgli di passare ai fatti. “Stare a letto con Jim era come stare a letto con il David di Michelangelo, solo che Jim aveva degli occhi blu. La sua pelle era così bianca, i suoi muscoli erano così puri, lui era così innocente”, ha raccontato la Babitz molti e molti anni dopo. Per un paio d’anni Morrison fu per lei “un oggetto di sesso”. Dopo di che divenne un “oggetto di morte”, da quanto palesemente la morte gli si stava avvicinando ogni giorno di più e non c’era scampo. Alla mattina del 3 luglio 1971 il suo corpo venne ritrovato cadavere nella vasca da bagno della sua casa parigina. Aveva in quel momento 27 anni.

Per essere una donna che ancheggiava con tale leggera eleganza dalle gallerie d’arte alle feste le più “in”, dalle sale da ballo ai musicisti in carne ossa, da Andy Warhol a Ed Ruscha (il padre del moderno libro d’artista che le aveva dato una parte in un suo film del 1965), dallo Studio 54 di New York al negozio che Fiorucci aveva aperto a Los Angeles, probabilmente era stato lo stesso Fiorucci a volere che fosse la Babitz a promuovere nel modo più chic possibile il suo lavoro negli States. Un libro promozionale, obietterete. Sempre meglio di quei libri autopromozionali scritti da politicanti di terza tacca di cui sono colme le nostre odierne librerie. Quando le diedero da fare quel libro, la Babitz aveva toccato i 37 anni. Doveva aver messo su parecchi chili, perché scrive che la sua taglia era la 12, quella delle americane fin troppo in carne, e laddove gli abiti messi in vendita da Fiorucci arrivavano alla taglia 10 dato che la massima parte del suo pubblico femminile era dato da ragazze affilate dalle lunghe gambe. E con tutto questo, lei scrive che quando entrò per la prima volta nel negozio Fiorucci di Los Angeles vide un berretto che le piaceva molto e che costava 20 dollari. Lo comprò, se lo mise sul capo e appena andò in strada ne ebbe un gran complimento da un passante: “You’re beautiful”.

Era l’ennesima volta che nel Novecento la creatività italiana affermava il suo dominio imperiale sulla civiltà occidentale. Dopo la pittura metafisica degli anni Dieci di Giorgio De Chirico, dopo l’architettura razionalista degli anni Trenta, dopo il cinema neorealista dell’immediato dopoguerra, questa volta e in un giro turbinoso di anni sarebbe stata la moda “à l’italienne” a dettare legge. La saga dei Versace, Armani, Missoni, Ferré, eccome se questa non è cultura. Quanto ai suoi negozi, dopo quello di Milano Fiorucci li avrebbe disseminati nel mondo, a Tokio, a Hong Kong, a Zurigo, a Londra, a New York. Il negozio di New York del 1976, dove John Travolta i jeans li comprava a dozzine per volta, lo aveva progettato la coppia fatale Branzi/Sottsass. Era un luogo di cui Andy Warhol andava in estasi: “Tutto di plastica, tutto quello che avrei voluto al mondo”. 

Splendidamente impaginato da Patrick Couratin, che seppe sposarne a meraviglia i testi della Babitz con le voluttuose immagini pubblicitarie dell’universo Fiorucci, il libro del 1980 è a suo modo un libro d’artista, e seppure all’opposto dei libri d’artista di Ruscha. Divenuto rarissimo, su Amazon ne offrono copie a prezzi lunari. Vi parrà strano che sia stata un’americana e non un’italiana a esaltare il lavoro di Fiorucci? Di certo negli anni Ottanta un’italiana che in fatto di connessioni tra arte e moda ne sapeva e ne viveva una più del diavolo c’era eccome, l’Anna Piaggi memorabile tutte le volte che ha scritto di Karl Lagerfeld.

Di più su questi argomenti: