(foto EPA)

nuovi pionieri

I big della moda e il digitale, scaltro posizionamento nella terra di nessuno

Ludovica Taurisano

Dopo la pandemia abbiamo traslocato nel digitale, ma nessuno ha avuto la creatività di farlo come il fashion. Che adesso cura pure l'abbigliamento degli avatar

Che si tratti di una contrita ammissione di quasi-sostenibilità, o di sdoganare il credo laico per eccellenza e cioè l’adesione a nessun dogma, guardate all’alta moda se volete essere progressisti. Ci sono i Dior Talks a parlare dei femminismi radicali o Alessandro Michele con l’estetica genderless, ma poi c’è qualcos’altro, dopo la bellezza e persino oltre il mercato: è la pseudo-morale da un lato e il presentismo dall’altro nel senso di stare dove le cose accadono, nella tempesta di Internet. 

 

Quando abbiamo traslocato forzatamente nel digitale, durante il periodo pandemico, i marchi hanno sperimentato co-branding e co-design con i videogiochi, oppure si sono imbarcati in presentazioni delle collezioni su Twitch: e così Vuitton ha vestito i personaggi di “League of Legends” e Uniqlo ha agghindato i Pokémon. Oggi che il Metaverso e l’intelligenza artificiale generativa tornano puntuali nelle conversazioni come una citazione di Foucault (rigorosamente senza averlo mai letto), i brand di lusso hanno persino azzardato una Metaverse Fashion Week, cioè la presentazione di abiti digitali il cui successo si misura a colpi di impression, interaction, reaction. Così Dolce & Gabbana e Diesel hanno lanciato degli Nft, Tommy Hilfiger ha inaugurato un negozio digitale, persino il colore Pantone dell’anno 2023, Viva Magenta, è stato creato dall’AI per uso esclusivo del fantastico e impalpabile “Magentaverse”. L’italianissima Gucci è forse l’esempio più consistente di investimenti nell’economia del Metaverso, che si stima possa raggiungere gli otto trilioni di dollari in 20 anni, stando alle previsioni di Goldman Sachs. A inizio 2022, Gucci ha creato una galleria virtuale di Nft e pezzi vintage, vendendo sneakers eteree che si possono indossare tramite realtà aumentata: se non te le puoi permettere nella vita reale, può indossarle il tuo avatar. Se vuoi fuggire da rifiuti, città e morte, evita Fassbinder e migra nella Gucci Vault Land in The Sandbox, definito come “il luogo in cui passato, presente e futuro coincidono”, un “multiverso parallelo di sogni”, l’Eden mediato da un click.

 

Si urla alla democrazia e all’equità, alla difesa dei diritti civili, al nuovo partito politico targato No Brand. AI potrebbe stare anche per “Avanguardia Inaudita”, ma non riferirsi al Male o Radio Alice, tutt’altro: davanti alle istituzioni rigorosamente il mercato, e ancora oltre il settore del fashion per il quale avventurarsi nell’AI serve a produrre una giustificazione metafisica e culturale del capitalismo di lusso, che continua a vincere per la semplice abilità di replicarsi. Le nuove frontiere della produzione culturale di tipo industriale si collocano in una faglia ben precisa: il parallelo trentatré dove si apre una voragine metastorica fuori dalla minaccia quotidiana dell’iniquità. Al posto degli esausti riti folkloristici, c’è la condivisa avventura polifunzionale digitale che fornisce un senso di familiarità, perché stiamo dentro quella cosa che è il dibattito pubblico, malfermo contenitore centripeto, che ci fa stare nella storia come se non ci fossimo, e cioè come avatar. E cosa dice tutto questo di noi, creature consumatrici sleali, volubili, giudicanti e, soprattutto, multipiattaforma? Che finiamo confinati in un sogno di futuro, che per definizione è fuori dalla dimensione storica tangibile dell’azione. 

 

Nella persistenza degli investimenti del gruppo di Arnault & Co. in tema di AI c’è un posizionamento scaltro nelle lande di nessuno: lì dove la bulimia di contenuto e l’horror vacui rendono il gioco una preziosa fonte di reddito; lì dove l’interazione con i simulacri ne rende insopportabile l’assenza; lì dove la reputazione si costruisce con l’iperpresenza: ci sono, dunque vendo. Eppure, a discapito del principio di eterogenesi dei fini, probabilmente è dall’alta moda che giungeranno le soluzioni più innovative, le creazioni più dirompenti e l’effervescenza di una produzione culturale che altrove, in questo paese, soccombe blindata dalle rendite di posizione del cosiddetto ceto colto.