oltre la moda

Le borsette del disamore. Da Wanda Nara al Totti gate

Fabiana Giacomotti

Quelle di lusso spuntano in tutti i casi pruriginosi, di cronaca e di gossip. Hanno superato case e gioielli nella lista dei desideri, fino a diventare simbolo di una riuscita femminile che tante perseguono con qualunque mezzo

Adesso che il “Rolex-e-borsette gate” dell’ex coppia Totti-Blasi è finito in tribunale e che l’avvocata Annamaria Bernardini de Pace ha gettato la spugna, inutile tentare un accordo extragiudiziale discreto e da signori di fronte a un clan che non vede l’ora di occupare le pagine dei giornali ancora per un po’, anvedi che siamo finiti anche sul New York Times, forse qualche parola sul motivo per il quale da ogni caso di cronaca appena un po’ pruriginoso spunti fuori una borsetta di lusso si potrebbe spendere.

Non per rimestare nel torbido, ma quando l’entourage di Alberto Genovese testimoniò che alle ragazze drogate e violentate offrisse “borsette da duemila euro”, la cosa non stupì per niente chiunque conosca un po’ il valore che le donne, nel giro fluido anche gli uomini, attribuiscono a qualunque parallelepipedo di pelle con un logo sopra. Si pensò, anzi, che oltre che sadico e stronzo dovesse essere anche avaro, visto che con duemila euro, sui brand più in vista, non si supera la soglia della clutch da sera. Insomma, niente di spendibile sul palcoscenico dello status symbol che, a dispetto della nuova tiritera della moda sull’inclusività e la trasversalità e tà-tà-tà, rappresenta ancora il primo motore di vendita dei marchi, che altrimenti non avrebbero ragione di stampigliare il loro logo ovunque. 

 

Qualche anno fa, Piero Chiambretti conduceva ancora “La Repubblica delle donne”, a Wanda Nara venne chiesto se fosse stata sua la favolosa collezione di Birkin Hermès andata all’asta qualche settimana prima da Finarte, la prima di una serie di vendite all’incanto di modelli a tre e quattro zeri che nel giro di qualche stagione avrebbero dato vita a un nuovo, lucrosissimo segmento di collezionismo. Rispose di no, specificando che tutte le sue borse erano conservate al sicuro nell’appartamento di Parigi. En passant, puntualizzò che erano il frutto delle sue fatiche di imprenditrice dello sport, cioè di procuratrice di “Maurito” Icardi suo, insomma che in gran parte non le erano state regalate (mandate a mente questo dettaglio, perché è fondamentale, senza fissarvi sul dato di cronaca della separazione più volte annunciata). Nessuno dei presenti ci credette, nemmeno quando, mesi dopo, saltò fuori che il venditore di quel patrimonio pellettiero era un uomo. 

 

Nell’ambiente della moda, l’informazione lasciò subito il campo a una serie di supposizioni molto fantasiose. Com’era possibile che quel numero spropositato di borse del marchio più desiderato del mondo, oltre quaranta, alcune addirittura in edizione numerata o in modello unico, non appartenesse alla moglie di un calciatore? A una velina che si era sistemata? A un’attrice di antichi princìpi, prendi un uomo e rovinalo? Quale pulsione innominabile spingeva un maschio, magari addirittura eterosessuale e cis, a possederne così tante? Per farne cosa, poi? Le regalava alle amanti per farsele restituire a lenzuola fredde come quel tipo del Veneto, anche questa è tratta da una storia vera ma non possiamo fare nomi e cognomi perché rischiamo il divorzio, che regalava a ogni nuova favorita l’usufrutto di un nuovo salon de coiffure fino a quando, al momento della lettura del testamento, gli eredi scoprirono di essere proprietari di una catena di botteghe del capello? Le collezionava per il gusto di e poi se le metteva al braccio per farsi fotografare en travesti come Marcel Duchamp quando impersonava Rrose Sélavy? La faccenda rappresentava infatti una svirgolatura eccitante rispetto a quello che è ormai uno standard del genere: la borsetta identitaria, simbolo di ascesa sociale e prima affermazione nell’universo del benessere delle donne ambiziose e leste di Instagram come fra i Venti e i Trenta lo erano i gioielli e in particolare i braccialetti, secondo quanto testimoniano anche certe canzonette maliziose di quegli anni e quei due capolavori della cinematografia au féminin che sono “Donne” di George Cukor e “Ziegfeld Girl” di Robert Leonard, in cui Joan Crawford e Lana Turner, le rovinafamiglie della storia, sfoggiano entrambe braccialetti d’oro e di brillanti, la seconda via via più falsi nella corsa al ribasso della propria virtù che la porterà alla morte. 

 

L’ultima volta che abbiamo visto al cinema il baratto fra un gioiello e l’amore è stato nei Cinquanta. Poi ci sono state le cappe di pelliccia (“That touch of mink”, Doris Day già vergine di ferro si struggeva per metterci le mani sopra ma stoicamente rifiutava fino all’offerta dell’anello nuziale, erano altri tempi), le case e le aziendine intestate e mantenute a dispetto di manifeste incapacità gestionali (ambosessi, “Il vedovo”), il parrucchiere-manicure, le auto e infine, su un livello generico ma anche e appunto autonomo, le borsette. Non i teneri sacchettini di velluto che le fanciulle vittoriane ricamavano a piccolo punto e che capita di scovare sui mercatini a pochi euro, ma oggetti da otto, dieci, ventimila euro che capita triplichino il loro valore col tempo e che tali e quali ai Rolex vengono consegnati infiocchettati “con la scatola e la garanzia”, prove di autenticità che solo i veri ricchi e gli sbadati buttano mentre tutti gli altri conservano come il cellophane sul divano nuovo, si sa mai. Aldo Gucci diceva che la qualità si ricorda molto tempo dopo che il prezzo si è dimenticato: il Totti gate è la prova che si sbagliava. C’è in giro un sacco di gente che il prezzo lo manda a memoria, e per questo può succedere che alla solida realtà dei Rolex prelevati dalla cassetta di sicurezza coniugale corrisponda la realtà opposta ma altrettanto solida della collezione di borsette trafugata dal guardaroba e che marito e moglie finiscano in tribunale per rinfacciarselo, a prescindere dall’evidenza che le Birkin e le Chanel (non la figlia, il brand) siano state ritrovate dopo mesi nella spa di casa, evidentemente la zona meno frequentata perché i proprietari preferiscono andare a mostrarsi all’Aniene. 

 

Resta però da analizzare il punto iniziale, e cioè perché mai proprio le borse abbiano soppiantato i gioielli e gli immobili nella graduatoria dei desideri femminili, decimetri quadrati di pelle contro metri quadrati di mattoni, ma soprattutto perché siano assurte a simbolo di una riuscita femminile che tante perseguono con qualunque mezzo. Si compravano borsette perfino le baby squillo dei Parioli: non lo scooter nuovo per andare al mare, ma la matelassé da sfoggiare all’ora dell’aperitivo come le donne consumate che, in effetti, erano. Ripiegate questo foglio, andate adesso fuori da un qualunque liceo, Roma o Milano o Verona uguale, datevi un tono per non sembrare appunto uno dei tizi che aspettavano le baby squillo col macchinone, e la serie di modelli “Cassandre” Saint Laurent che conterete sarà sufficiente a spiegarvi il balzo del 37 per cento delle vendite del marchio del gruppo Kering nei primi nove mesi di quest’anno. Decenni di slogan e di articoli delle riviste femminili sui “must” di stagione, l’unico avverbio risalente agli Ottanta che non sia passato di moda, e sulle borse “miglior investimento che una donna possa fare”, hanno prodotto il risultato che ci si poteva attendere, e cioè una generazione di donne convinte che il successo visibile, postabile sui social, fonte di invidia e plauso generale, sia costellato di ultimi modelli Gucci e Bottega Veneta. Non è dato sapere, o forse sì, perché un processo similare di risignificazione non abbia riguardato le scarpe: chi possiede centinaia di décolletées e di sandali è un’eccentrica, chi decine di borse un’arrampicatrice, al punto che le modaiole si sono fatte circospette nello sfoggio dei modelli che ricevono e ora li preferiscono  anodini. 

 

Per darsi una risposta possibile basta però osservare la riproduzione di una pittura rupestre del Tassili n’Ajjer a nord della città di Djanet, in Algeria: scorrendo con lo sguardo quel favoloso lascito artistico primitivo, si scorge una donna (la figura è stilizzata, ma la forma delle cosce è molto eloquente) con una borsetta quadrata al braccio del modello che portavano le nostre nonne nei Cinquanta. Che cosa contenesse è intuibile, o forse no: il punto è che conteneva qualcosa. Qualcosa che si poteva anche non mostrare. Proprietà privata. Trasportabile. Lungo la storia dell’umanità e almeno fino al tragico periodo del borsello, cioè attorno ai Settanta del Novecento, la borsa è sempre stata un accessorio agender. Il modello poteva essere più o meno femminile, ma la funzione identica. Poi si potrà sostenere, a ragione, che la forma della borsa, la sua funzione, richiami gli organi riproduttivi femminili, che è anche l’origine di alcune espressioni gergali milanesi invero molto volgari. Ma non ci sono dubbi che se adesso gli uomini portano in prevalenza zainetti sulla schiena o piccoli portamonete in tasca lo fanno con un gesto che rientra nella normale evoluzione dell’uso dei sacchi di fibra vegetale dei loro antenati o delle scarselle e delle borse cinquecentesche fissate alla cintura che i ladruncoli tagliavano furtivi, da cui il sostantivo “tagliaborse” e una ricca messe di dipinti, perlopiù fiamminghi, dove il quattrino, la riuscita professionale e il possesso erano questioni direttamente collegabili alla salvezza eterna e alla benevolenza del Signore. 

 

Per la donna, il tema di una borsa che non sia da lavoro, cioè che non contenga giusto aghi, fili, matassine da ricamo, o che si risolva in un anello da infilare alla cintura per trattenere le chiavi della credenza e della dispensa come una rezdora emiliana, è invece un po’ più complessa. Perché riuscisse a riempirla di stetoscopi, faldoni e compassi ci sono voluti millenni. Quando osservate la borsetta della bisnonna tanto chic e vi domandate come facesse a star fuori una giornata con lo spazio sufficiente per un fazzoletto, due biglietti da visita e un piccolo portamonete vi state rispondendo da soli: non era previsto che trascorresse la giornata fuori casa, che pagasse grosse spese (il portamonete era destinato perlopiù all’elemosina, da cui modello di borsa apposito, l’aumônière), non era immaginabile che lavorasse. Al limite si rendeva “in visita” da un’amica nel pomeriggio, da cui e addirittura, sul finire dell’Ottocento, nacque una giacca apposita, la “visite”, e prima di farlo lasciava il proprio biglietto da visita. Anni fa, per una mostra al Museo Morando di Milano, ricostruimmo il contenuto delle borse femminili lungo i decenni del Novecento, inserendoli in una sfera di plastica: la prima era quasi vuota. Dagli Anni Ottanta in poi si trasformava nel succedaneo di casa che conosciamo anche oggi, e che i maschi etero-cis tanto irridono senza sapere, anzi sapendolo benissimo, che per noi queste borse pesantissime che ci disassano la postura sono una conquista. Spesso, addirittura, le raddoppiamo: borsa piccola e chic per mostrare il nostro status, cartella per tutto il resto e principalmente per l’ipad.  Naturalmente, da neofite, esageriamo. Ma fra la borsetta status dell’arrampicatrice, quella donata dallo sugar daddy e quella duramente conquistata c’è un’immensa differenza. Wanda Nara fece benissimo a specificare che le sue se le era comprate tutte da sola. L’importante per chi guarda è saper cogliere la differenza.

P.S. La catena di parrucchieri dell’imprenditore veneto è stata ceduta a un gruppo francese leader nel settore, mettete voi il nome che tanto è quello giusto. Non si sa come siano state liquidate le sue molte amanti.

 

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