Foto Ansa 

Il foglio della moda

Così Sanremo è diventato ambitissmo dai marchi del lusso

Fabiana Giacomotti

Ecco come e perché uno spettacolo pop si è trasformato nell'oggetto dei desideri dei grandi brand. C’entrano molto i social e l’espansione dell’e-commerce. Analisi dietro le quinte

Nel 2015, dietro le quinte del Festival di Sanremo o, per meglio dire, in sartoria, scoppiò il caso di Emma Marrone. Quell’anno conduceva il Festival con Arisa e Rocìo Morales e, a differenza delle altre due, nonostante fosse già famosa, nessun grande nome della moda volle vestirla. So che per le signore di un tempo, sulle quali si è modellata con le sue mise vintage o fatte su misura dalla sarta di fiducia Drusilla Foer, alias di Gianluca Gori, indossare abiti in prestito, addirittura di campionario, sia davvero il minimo dell’esperienza vestimentaria umana, ma nella società contemporanea, l’offerta dell’abito equivale all’apice, le sommet, del successo. Emma comprò dunque gli abiti che desiderava nelle boutique, come una normale cliente, li assemblò a suo modo con la sua assistente, non ne venne fuori benissimo. Ricordo che alcuni di questi marchi, riconoscibilissimi, si premurarono di telefonare ai cronisti e alle commentatrici delle testate più importanti per sottolineare la loro totale estraneità al “progetto” che ovviamente tale non era, ma sapete attorno a quali ipocriti sofismi ruoti spesso questo mondo. Quest’anno, uno degli stessi marchi che, solo sette anni fa, aveva respinto Emma come le “commesse a percentuale” Vivian-Julia Roberts in “Pretty woman”, va diffondendo comunicati entusiasti sulla “collaborazione”. Essendo la ragazza garbata che è, e guardando anche e giustamente al proprio interesse, la cantante l’ha siglata, tirando anche una riga sul passato. Questo esempio per dire che, nell’evoluzione della storia e dei tempi della moda, attorno al Festival di Sanremo e in particolare alla sua serata finale, sono accadute molte cose interessanti, in cui l’espansione abnorme dell’uso dei social network ha svolto un ruolo rilevantissimo.

 

Per l’Italia che sta alla televisione e che la televisione guarda, la serata finale del Festival di Sanremo equivale alla cerimonia di assegnazione degli Oscar. Un grande spettacolo popolare come non è mai riuscita ad essere, né forse in realtà ha mai voluto, la Mostra del Cinema di Venezia, e come non sono certamente altre manifestazioni pur prestigiose quali i David di Donatello. Sanremo, o per essere corretti il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, data di debutto ufficiale il 1951 con il famoso richiamo del presentatore Nunzio Filogamo (“cari amici vicini e lontani”), della serata degli Oscar ha, in proporzione, gli ascolti e gli obiettivi, che non sono il semplice fare musica o proporre buone canzoni, ma fare innanzitutto spettacolo. Il punto è questo, e cioè il progressivo spostamento dell’asse mediatico e dell’interesse generale dalle canzoni all’entertainment. Per tornare al caso di Emma, non ci sono dubbi che in questi anni la sua figura pubblica e artistica si sia molto evoluta, diventando dunque interessante per brand di lusso che, come da missione, guardano al “posizionamento” degli altri brand con cui entrano in contatto, fossero pure – e come sono - i loro testimonial, ma è altrettanto vero che, senza l’impatto potente dei social nella moltiplicazione dell’immagine presso il pubblico più differenziato e internazionale, e senza l’espansione combinata dell’ e-commerce, l’entusiasmo che negli ultimi due-tre anni si è riversato sul festival non sarebbe stato possibile.

 

Sanremo fa vendere moda? Ormai, certamente sì, ma rende anche virtualmente avvicinabili a un pubblico immenso e indifferenziato, il pubblico che può parteggiare per Gianni Morandi e commuoversi per Mahmood e Blanco, una serie di brand percepiti come “lontani dalla gente”. La progressiva espansione popolare dei marchi del lusso, il difficile equilibrio fra accessibilità e sofisticazione intellettuale che mettono in scena ogni giorno al fine di moltiplicare i fatturati senza mettere a rischio la propria immagine, questa costante tensione fra mass market e rarefazione delle merci, ha reso paradossalmente Sanremo il palcoscenico ideale per mettere in scena questa dicotomia e trasformarla in un capolavoro di democraticità consumeristica. In questo complesso processo di mediazione, ha perso progressivamente piede la consulenza per così dire interna, i famosi e un tempo davvero celebri “costumisti Rai”, a favore della figura degli stylist, quest’anno dominata a Sanremo da Nicola-Nick Cerioni, legatissimo a Gucci e artefice del look dei Maneskin, e Susanna Ausoni, fresca autrice del manuale “L’arte dello styling” con Antonio Mancinelli per Vallardi. Che il vento stesse cambiando si capì dalla prima edizione condotta da Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, nove anni fa, che fece picchi di 14 milioni di ascolti e introdusse argomenti sociali rilevanti portando il festival nell’area di un possibile interesse para-intellettuale. La successiva direzione artistica di Claudio Baglioni, di portata internazionale e avvenuta mentre il fenomeno dell’e-commerce e di Instagram prendevano piede, hanno come si dice in genere “sdoganato” il festival, rendendolo appetibile anche per marchi del lusso, con la sola eccezione di Giorgio Armani e, molti anni fa, delle Sorelle Fontana, da sempre autenticamente interessati al mezzo televisivo e a una popolarità senza barriere culturali o di status.

   

Quest’anno, nessuno manca dei grandi brand nell’elenco dei presenti a Sanremo, e quasi esclusivamente con capi realizzati su misura e su “progetto”, da Armani a Zegna. Guardando le foto dei primi anni della manifestazione, gli anni della ricostruzione, salta all’occhio l’abissale salto di auto-rappresentazione compiuto non solo da Sanremo, ma dall’Italia intera, l’annullamento progressivo delle differenze per le quali Jula De Palma, l’interprete-scandalo di “Tua” (1959), poteva permettersi abiti di alta sartoria milanese, lasciando ai commentatori bacchettoni dell’epoca la sola soddisfazione di paragonare il capo splendido con cui interpretava un testo così esplicitamente sensuale a “una camicia da notte”, mentre Iva Zanicchi confessava di essere giunta al festival “con la maglietta di lana e le medagliette votive appuntate alla spallina”. E in questo processo, perfino alle sue condizioni, un po’ di merito spetta anche alla moda.

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