Finale della sfilata haute couture Valentino (foto courtesy Valentino) 

il foglio della moda

I nuovi ritmi del vestire

La percezione attuale del tempo e le sue infinite ripercussioni per il sistema produttivo e la sua narrazione

Fabiana Giacomotti

Aumentano i costi di produzione, diminuiscono le occasioni di sfoggio. Il sistema della moda non regge più la moltiplicazione eccessiva delle proposte. Dalla haute couture al pronto moda, tira aria di revisione. Anche nello stile

Gaetano Pesce, nome-simbolo del design italiano che dal 1980 vive a New York e che sta per disegnare una capsule collection con l’eclettissimo Massimo Giorgetti di Msgm, ha una sua teoria sul tempo, che guarda un po’ oltre la lezione di Henri Bergson, cioè accorpa il tempo spazializzato dei minuti e delle ore e quello personale, il cosiddetto tempo autentico. “Il tempo è una cosa straordinaria”, dice: “Ci può tenere avanti o indietro. Bisogna stare al suo ritmo, altrimenti si invecchia”. Il ritmo, dunque, può essere subìto o indotto. Quello che va preparandosi per la moda prossima o attuale, e le sfilate della haute couture di Parigi con il loro ritorno all’essenzialità dell’abito, alla sua costruzione visibile e apprezzabile e soprattutto alla moda giorno, per così dire “utile”, dopo anni di solo esercizio estetico attorno alla gran sera, ne sono state un esempio, è il tempo della pulizia. Di forme, di processi.

 

Da due anni non si esce o si esce pochissimo, le uniche occasioni di incontro sono quelle di lavoro: chi ha ancora bisogno di abiti da gran sera? I due simboli di questa nuova stagione di sfilate sono stati dunque e senza alcun dubbio Dior, dove la sofisticata manualità della coppia di artiste indiane Madhvi e Manu Parekh, degli atelier Chanakya e della Chanakya School of Craft di Mumbai, unita alla sapienza commerciale sempre più evidente di Maria Grazia Chiuri (sì, commerciale, e non c’è nulla di male, anzi: quanti vorrebbero averla a capo della propria maison adesso) ha prodotto una collezione elegante e perfettamente portabile e per altri versi, cioè per l’approccio socio-culturale, a Valentino, grazie all’insistenza di Pierpaolo Piccioli attorno alla forza differenziante del corpo.

 

L’esigenza di rivedere costi e processi e di dare anche alle molto abbienti che indossano haute couture proposte in linea per le loro giornate, che iniziano alle dieci del mattino e non alle dieci di sera, ha portato alla ricomparsa in passerella della moda giorno, e con questo vorremmo segnalare che a Parigi si è notata molto la mancanza di Giorgio Armani, benché vi fossero tocchi della sua lezione ovunque e in particolare, financo troppo evidente, da Chanel. Negli ultimi sessant’anni il tempo della moda o, per meglio dire, il tempo della moda fino all’era del nostro scontento pandemico, i cui due anni di durata apparente scadono in questi giorni ma sembrano già una nebulosa decennale, è stato schizofrenico.

 

Ogni segmento del mercato aveva, e ovviamente in buona parte ancora ha, regole, tempistiche e modi propri di produzione. Partivano i filatori, quindi i tessutai e i conciatori, con una media di due anni di anticipo sui tempi in cui i loro prodotti, al tempo stesso materia finita e semi-lavorata, sarebbe stata proposta ai designer e agli uffici stile dei grandi brand. Poi, arrivava la produzione stessa, che a circa sette-otto mesi dalla data-vetrina veniva venduta parzialmente ai buyer e sei mesi prima mostrata alla stampa specializzata, e quindi ri-proposta ai buyer, che terminavano il giro degli acquisti a fronte degli apprezzamenti o meno dei critici.

   

Seguivano rassegne sui giornali, la pubblicità in ogni forma, e infine l’arrivo dei capi nelle vetrine quando la gente si era già dimenticata di quello che aveva visto sei mesi prima e figuratevi la stampa, che aveva già valutato le pre-collezioni della stagione successiva e non riusciva già più a collocare un gadget nel suo tempo corretto di prima diffusione. Nel frattempo, intercettando le tendenze e non di rado definendole meglio, intervenivano il fast fashion e il pronto moda di matrice italiana, che non sono affatto la stessa cosa anzi sono l’esatto opposto, perché il primo lavora di produzione ed esaurimento scorte, cioè produce un sacco di capi ovunque nel mondo e spera di smaltirli, e il secondo lavora a chilometro zero o quasi solo su ordine: le boutique multimarca si rivolgevano a questi ultimi con piccoli o grandi ordinativi da affiancare alle collezioni dei grandi brand, per massimizzare le vendite e offrire un look completo a prezzi possibili per il pubblico.

 

A latere, o per meglio dire ad altezze diverse, viveva il mondo ancora perfettamente antico nei tempi e nei modi della couture. Non ve la facciamo troppo lunga perché vi sarebbero ancora infiniti derivati e addentellati, ma diciamo che queste tempistiche variegate e stratificate, questo mondo entropico, senza contorni netti se non una continua sollecitazione per stampa e compratori, sta tentando di darsi un nuovo ordine – e molta pulizia - anche a fronte dell’evidenza che, causa pandemia, aumento dei costi energetici e delle materie prime, il suo stesso sistema produttivo si è dimostrato inefficiente, dispendioso e molto insostenibile. Dunque si taglia, ci si concentra, si apportano aggiustamenti.

 

Fulvia Bacchi, amministratrice delegata del salone Lineapelle che inaugurerà la nuova edizione il 22 febbraio a Milano, dice che “i clienti sono tornati a fare meno collezioni: non ci continuo, ogni mese, com’era diventata prassi, ma come un tempo: collezioni primarie e quindi riassortimenti. Certo, con una maggiore pressione sui tempi di consegna. Definita la creatività, vogliono tutto in frettissima”. In questo processo, la creatività per sé, duole dirlo, resta importante e fondamentale, ma ormai vince chi controlla la filiera e chi gestisce i processi, non solo chi disegna bei vestiti, ed è facile prevedere per i prossimi anni un aumento dei creativi disoccupati, già peraltro in buon numero, e una caccia ai giovani ingegneri gestionali, ai direttori marketing e ai programmatori sviluppo taglie per un mondo che cerca l’inclusività ma continua ad avere fisicità profondamente diverse (l’altro ieri, chiacchierando con Giulia Pompili che conosce l’Estremo Oriente meglio di quasi chiunque, mi ricordava con molti esempi quanto l’abbigliamento agender abbia senso in Corea e quanto sia difficilmente opzionabile per le fisicità mediterranee).

 

Non è un caso, e ne scriviamo da mesi, che il mercato della moda stia premiando chi controlla la filiera, vedi Gildo Zegna e le nuove acquisizioni di Bernard Arnault, finalizzate ad arricchire il know how del gruppo, non il numero dei marchi. In questa revisione generale, resta un unico tempo non comprimibile e non irreggimentabile, ed è quello del sogno.

 

Un tempo inafferrabile per se, l’unico a cui anche adesso, anni di rincorsa estrema all’autogratificazione, siamo tutti – creativi, commerciali, clienti - disposti a sottostare perché legato alle nostre percezioni e ai nostri desideri più personali e più profondi. È questa l’unica dimensione che, pur potendosi dilatare virtualmente all’infinito, accettiamo di buon grado che si protragga per anni. Restando desideranti, silenti, chiusi. Su tutto il resto, esigiamo la gratificazione immediata, in un tempo che, come direbbe il fisico Carlo Rovelli, fa “rumore”, che accelera e decelera, si impenna e si ritorce, oscilla. Non procede dal passato al futuro, ma si ferma, riparte, muore e poi ritorna, in una danza indipendente e anarchica, senza un ritmo oggettivo. Intercettare questo ritmo è la sfida del momento.

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