il foglio della moda

Viaggio al termine degli stracci

Silvia Gambi

Da Prato all’Africa fino al Pakistan per tornare alla Toscana. Un nuovo documentario racconta l’evoluzione del mercato della lana rigenerata e dell’upcycling: una storia secolare che oggi è tornata centrale. La sua sceneggiatrice ne scrive in anteprima

Per anni, nei magazzini polverosi di Prato, è arrivato il mondo, sotto forma di balle di abiti usati. Di “stracci”, come si chiamano qui. Quelle balle raccontavano storie diverse e lontane: gli abiti da sera, i vestiti da sposa, le divise, i cappotti, e poi ancora coperte, pantaloni, giacche. Pazientemente, per decenni, centinaia di persone hanno lavorato per trasformare in ricchezza quello che altri avevano gettato via: un modello di economia circolare quando di green economy non parlava nessuno e chi faceva questo lavoro era semplicemente un “cenciaiolo”.

Questa storia meritava di essere raccontata: ecco perché, insieme con il regista Tommaso Santi, abbiamo deciso di realizzare “Stracci”, un documentario che ripercorre questa esperienza straordinaria, ma con lo sguardo rivolto a quello che sta succedendo nel resto del mondo. Nel corso degli ultimi anni ho avuto l’occasione di accompagnare molti giornalisti stranieri a visitare il distretto, mostrando loro quello che qui viene fatto da secoli: ne ho osservato lo sguardo affascinato di fronte alla bellezza di una lavorazione fatta di colori, di fibre che volano, di rumori e di odori, di uomini e donne che raccontano aneddoti indimenticabili. Ho accompagnato il National Geographic, la BBC, Tv France e molte altre troupe arrivate in città per raccontare la magia di questa industria, in grado di trasformare un maglione vecchio in un tessuto nuovo. “Stracci”, che ha ottenuto il sostegno della Toscana Film Commission ed è prodotto e distribuito dalla casa di produzione indipendente Kove, è diretto da Tommaso Santi, già vincitore del Globo d’Oro della Stampa Estera in Italia per il documentario “Restaurare il cielo”. Io ho collaborato alla scrittura. La spinta decisiva per la realizzazione di questo lavoro, che verrà presentato ufficialmente a novembre per poi partecipare ad alcuni festival ed essere reso disponibile per la proiezione, è venuta da Tommaso, che quindici anni fa aveva scritto uno spettacolo teatrale dedicato al mondo dei cenciaioli, raccogliendo pazientemente le interviste di una decina di loro, anziani e oggi scomparsi. Le loro interviste, inserite nel documentario, sono una testimonianza importante: ascoltandole, abbiamo capito che quel mondo sta scomparendo, che quel mestiere sta cambiando e che presto cambierà anche Prato. Raccontare un’attività che vedi tutti i giorni da vent’anni non è semplice. Per me gli stracci hanno sempre rappresentato la storia della mia città: una storia legata a tutti i racconti di un periodo irripetibile che ha portato ricchezza ma che, soprattutto, ha dato a tutti quelli che avevano voglia di mettersi in gioco l’opportunità di avviare un’attività. Questa imprenditorialità diffusa ha creato un’incredibile mobilità sociale e ha permesso a Prato di sopravvivere in mezzo a tutte le bufere che hanno attraversato il tessile. 


Il processo di rigenerazione della lana è sempre lo stesso da centinaia di anni, ma non smette di affascinare: la selezione di materiali, la preparazione degli abiti per il riciclo, la produzione della fibra, la lana meccanica. Ogni passo della lavorazione è stato raccontato nel documentario: è difficile immaginare che un processo industriale possa essere così affascinante. Ma questo ha una particolarità: è un lavoro corale, raccontato nel nostro film da dodici voci imprenditoriali diverse, che ci hanno raccontato le loro storie, ma anche le loro preoccupazioni per uno scenario in continua evoluzione. Secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione internazionale Textile Exchange sull’uso delle fibre nel mondo della moda, su 109 milioni di tonnellate prodotte solo lo 0,5 per cento proviene dal riciclo di materiali tessili. La lana raggiunge il 6 per cento, anche grazie al contributo pratese. Il mondo si veste poco di lana, però: solo l’1 per cento della fibra globale utilizzata nel mondo della moda è lana; eppure, si tratta di un’attività molto rilevante. Se il riciclo dei tessili è la sfida più ambiziosa che attende il settore della moda, questo è un laboratorio fantastico. 


Ho trascorso molto tempo a fare ricerche, sommersa dai dati, per inquadrare lo scenario mondiale e le rotte del tessile, e quella che doveva essere la storia degli stracci di Prato è diventata più ampia: se prima il mondo arrivava qui sotto forma di abiti usati, adesso ci arriva in altro modo. Ma la geografia degli abiti usati deve fare tappa a Prato, non c’è scampo.


Le restrizioni legate al Covid hanno reso più complicato il nostro lavoro: abbiamo trascorso molte ore di fronte al computer facendo video chiamate, raccogliendo informazioni per preparare le interviste. Poi abbiamo cercato operatori locali in grado di fare le riprese per noi: Tommaso, con il direttore della fotografia, ha preparato frame di inquadrature, scelto le macchine, individuato i posti giusti. In questo modo siamo potuti andare, anche se solo virtualmente, in Ghana, in Pakistan, a New York, all’Isola di Wight. Solo così la nostra storia sarebbe stata completa. 


La prima tappa è stata l’Africa: qui arrivano gli abiti usati dei paesi occidentali. Una parte di questi riescono ad alimentare un’economia legata al second hand, ma la maggioranza di quello che arriva è di una qualità così bassa che può solo finire in discarica, dove gli abiti vengono inceneriti, oppure si disperdono nell’ambiente: sono ovunque, sulle spiagge, nel mare. Il problema è così serio che cinque Stati africani - Burundi, Kenya, Rwanda, Tanzania e Uganda - hanno deciso di vietare l’importazione di abiti usati, facendosi carico di un ricatto commerciale da parte dei paesi occidentali che per questa decisione impediscono l’esportazione dei loro prodotti. In Ghana, a Kantamanto, c’è la più grande discarica di abiti usati del mondo. Liz Ricketts è la direttrice di The OR Foundation, un’organizzazione che lì opera e che cerca di sviluppare un’economia basata sull’upcycling e sul riuso creativo. Quando abbiamo registrato l’intervista Liz si trovava a New York: é stata illuminante nel racconto non solo del problema, ma anche delle possibili soluzioni. Quegli abiti che stanno invadendo il Ghana possono anche essere una grande opportunità, se l’industria locale imparerà a trattarli e riciclarli, ma non è un lavoro semplice. Uno dei problemi maggiori a Prato è la mancanza di personale in grado di fare il lavoro di selezione: per fare riciclo di buona qualità questa è un’attività fondamentale. La base di un processo circolare che prende un abito e lo trasforma in un nuovo abito o da un maglione crea un nuovo maglione, ha come presupposto quello di una selezione accurata, senza imperfezioni. Può essere effettuata solo manualmente, benché ci siano macchine sperimentali in grado di effettuare questa operazione meccanicamente. E se quella della selezione degli stracci, non solo di lana, rappresentasse un’opportunità economica per altri Paesi?


Nelle aziende dove a Prato si fa ancora la selezione degli abiti usati, più della metà è destinato al riuso, una parte al riciclo, mentre solo il 3 per cento del materiale finisce in discarica: un’esperienza virtuosa che può essere esportata. E per questo il documentario ci ha portato in Pakistan, a Karaci. Qui un imprenditore locale, dopo aver visitato Prato numerose volte in epoca pre-Covid, ha iniziato la sua attività di selezionatore di maglie. Oggi nel distretto pratese si riciclano solo maglie, che hanno una fibra più lunga e garantiscono una qualità migliore. Qui entra in gioco un’altra caratteristica della lavorazione: il riciclo del colore. La fibra che viene riciclata è già colorata e quindi non viene sottoposta al ciclo di tintura, con evidente risparmio sull’impatto ambientale. Ma proprio per questo motive, per ottenere un determinato colore è necessario selezionare una grande quantità di stracci, perché la sua presenza in ogni balla è del tutto casuale. Questo è il motivo per il quale a Prato ci sono aziende che hanno enormi magazzini, pieni di materia prima, e anche la ragione per cui siamo andati in Pakistan: qui vengono acquistati i quantitativi di maglia colorata già selezionati o parzialmente selezionati. Abbiamo voluto raccontare come si lavori dall’altra parte del mondo, entrando in una di queste fabbriche.


“Stracci” racconta una storia, ma solleva anche numerosi problemi. Il principale ostacolo al riciclo è la progettazione dei capi, che non sono pensati per rendere possibile la gestione del loro fine vita. Per essere riciclato, un abito deve essere facilmente smontabile, ed è quindi fondamentale che segua i principi dell'eco-design. Le imprese che riciclano pensano che così potrebbero ottenere risultati migliori. Ma cos'è l'eco-design? Per scoprirlo, siamo andati fino all’Isola di Wight, sede della Ellen Mac Arthur Foundation, un’autorità in materia di economia circolare, per farci spiegare come debba essere fatto un capo, raccogliendo indicazioni importanti che riguardano il futuro del settore. L’Unione Europea renderà presto responsabili i produttori per i capi che immettono sul mercato, per evitare la massa di rifiuti tessili che stanno invadendo il mondo continui ad aumentare. Il rischio è che il viaggio di questi materiali finisca in un inceneritore, in Europa o magari in Africa.


L’unica risposta possibile che abbiamo trovato alla fine del nostro viaggio è che c’è bisogno di ripensare il nostro modello produttivo e il nostro modo di consumare. Forse Prato ci è arrivata prima degli altri, ma alla fine la spinta al cambiamento, oggi come allora, è sempre la stessa: recuperare risorse là dove tutti vedono rifiuti. La sfida è enorme, il volume delle fibre immesse sul mercato e che ad oggi non sono riciclabili è altissimo: ma cambiare si può. Per prima cosa, però, è fondamentale non chiamarli stracci: sono molto di più.

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