il foglio della moda - interviste

Dove c'è Valentino c'è cuore

Fabiana Giacomotti

Chiacchierata con il ceo Jacopo Venturini sul significato di “maison”, la colleganza e la “strategia di riposizionamento naturale del brand” che ne deriva. Compreso un primo progetto sul vintage

A dispetto di quello che è diventato naturale pensare da qualche anno a questa parte, usandolo in funzione di sinonimo, il termine maison non significa marchio di moda o marchio di moda chic. Significa casa. Cioè volti, nomi, storie di persone. Per esteso, affetti e relazioni. Facile, a ricordarselo. Difficilissimo, a volerlo mettere in pratica. Lavorare sul significato profondo delle parole che usiamo quotidianamente è un esercizio per specialisti o per teologi. Dunque, è abbastanza singolare che un manager di formazione economica sia partito dalla semantica e dall’etimologia nella definizione della nuova strategia per l’azienda che guida da un anno a questa parte. Ma Jacopo Venturini, amministratore delegato di Valentino, al suo terzo ritorno a Palazzo Mignanelli nel giro di vent’anni, è un manager molto singolare.

  

Nasce professionalmente come merchandiser e qualcuno ritiene che il merchandising sia la volgarizzazione dell’ineffabile idea creativa del designer. È giusto il contrario: è la messa a terra, la concretizzazione di quell’idea, la sua trasformazione in messaggio intellegibile o, per meglio dire, di richiamo al desiderio di acquisto e di possesso. Questo processo può essere compiuto in modo intelligente, sfacciato o banale e, come disse Marco Bizzarri, ceo di Gucci, qualche tempo prima che le loro strade si separassero, “(Jacopo Venturini) capisce il cliente e i mercati, ed è in grado di trasferire queste informazioni a un direttore creativo che magari ha una sensibilità completamente differente, e insieme con lui risolvere tutti i problemi fino alla creazione di una collezione che funziona”.

  

Valentino, Prada, Valentino, Gucci fino al 2019, di nuovo Valentino: ricordatevi della collezione che avreste voluto comprare in blocco, andate a confrontare le date e scoprirete che, in quel periodo, lui era lì. Questa non è la sua prima intervista in Italia: qualche settimana fa, Venturini commentò l’aumento dei ricavi del 64 per cento nel primo semestre dell’anno rispetto al corrispettivo periodo del 2020, annunciando il pareggio con il 2019. È però la prima volta in cui, sempre partendo dal punto focale dei valori che esprime il concetto di maison de couture, abbia accettato di parlare della strategia di riorganizzazione dei processi che ha va sviluppando all’interno dell’azienda, e che si applicano lungo la stessa logica e la stessa filosofia, outbound, verso l’esterno, dell’attenzione totale per il cliente.

   

Per Venturini, la “client-centricity”, secondo un neologismo che i consulenti usano spesso, va applicata non solo chi a entra in negozio, ma anche al vicino di scrivania o al collega dell’ufficio tecnico: “Credo che la client-centricity vada estesa alla colleague-centricity: è fondamentale che all’interno dell’azienda chiunque si senta cliente o fornitore di qualcun altro”. Spiega: “Qualunque lavoro tu faccia, che tu produca un documento o partecipi a una riunione, se pensi che le persone con cui ti stai relazionando siano tuoi clienti, userai automaticamente un linguaggio adeguato: per esempio, se sei un tecnico ti renderai conto di dover ricorrere a un lessico comprensibile a tutti. Adottando la colleague-centricity, la catena del valore che arriva al negozio diventa un percorso molto lineare, solido e coerente”.

  

Questo “viaggio nella nuova Valentino”, come mi è stato annunciato, avviene in una mattina di settembre a Milano, nella sede di via Turati 16-18 e più precisamente nel famoso ufficio-salotto d’angolo del primo piano (famoso perché vi sono passate generazioni di ceo, anche dell’epoca Gemina ahinoi), che Venturini ha allestito con un paravento e tavolini Novecento di lacca cinese. Seduto a ragionevole distanza di sicurezza, nel completo bianco e friulane di velluto nero che sono diventate la sua panoplia iconica insieme con una strepitosa collezione di cammei che indossa soprattutto montati a bracciale (“sono diventato giovane da pochi anni, prima vivevo con molta meno leggerezza”), esperisce la strategia della client-centricity globale sull’intervistatrice accomodata di fronte.

 

Due giorni prima, ospite con la troupe nella saletta riservata della boutique Valentino di via Montenapoleone per un’intervista video a un consulente strategico-finanziario molto noto che cercava privacy, mi è stato offerto all’uscita un mazzo di fiori di campo e di rose. Giusto per il piacere, pour le plaisir, di averci avuti lì, cinque persone con luci e telecamere, a mettere a soqquadro gli ambienti. Alla base del gentile omaggio delle rose e le margheritine nell’involto di carta c’è però una considerazione di base da fare, che è la seguente: non avendo più bisogno di coprirci, in quasi tutto il mondo, quando entra in una boutique chiunque di noi non compra dei vestiti o nemmeno solo un marchio. Compra qualcosa che gli assomiglia o in cui si riconosce. Insomma, valori. “Il mio primo pensiero, quando sono tornato in Valentino, è stato creare valore sul brand attraverso un suo riposizionamento che definirei naturale nell’ambito delle maison di couture”. Come puntualizza Venturini, “dagli Anni Sessanta, Valentino ha continuato a fare couture in modo serio e rilevante e questa centralità implica una serie di valori che devono permeare tutta l’azienda”. La prima decisione è stata di sospendere le attività legate a REDValentino dal 2024 per “focalizzare le energie su un’unica etichetta”.

   

La qualità-couture della linea pret-à-porter di Valentino, già visibile nelle ultime collezioni, è stata esplicitata in modo evidente lo scorso week end, a Parigi, durante lo show dedicato alle primavera-estate 2022 che, non fosse stato per la pioggia già autunnale, si sarebbe dovuto tenere quasi interamente all’aperto, lungo la rue Eugène Spuller (che era l’avvocato della Commune del 1870, guarda il caso), con gli ospiti seduti ai tavolini dei bistrot a sorbire aperitivi e caffè come normali avventori, fra il passaggio della gente. Il solito, mutevole clima continentale ha avuto la meglio, per cui i tavolini sono stati portati all’interno del Carreau du Temple. Fuori, per la gioia del passeggio locale, sono passate invece le modelle mentre, per cinque giorni, una serie di negozi adiacenti sono stati “risignificati”, come dicono in Valentino in derivazione diretta dal pensiero di Audre Lorde, con le linee di prodotto e la qualità dei servizi del brand: il take over si è prodotto sul salon de beauté con la nuova linea di cosmetica, mentre in uno spazio multi-funzionale è stata offerta la playlist tratta dal podcast “Are we on air”, interviste agli artisti comprese. Presso la boutique Rombaut si raccoglievano invece i pre-ordini della nuova linea di sneaker Open for a Change realizzata in materiali e packaging di riciclo, in uscita a fine anno (“non ne abbiamo fatto proclami, ma già nel 2013 Valentino aveva sottoscritto un programma con Greenpeace Detox Solution per eliminare i componenti chimici dannosi dalla nostra filiera; il secondo con Zero Deforestation Project per la protezione delle foreste pluviali: nel primo caso abbiamo raggiunto il 63 per cento degli obiettivi”).

   

Non mi è stato possibile restare a vedere che cosa succedesse nello spazio in cui si vendevano le felpe “(V) accinated” a scopi benefici, sulle quali si sono scatenati una decina di giorni fa i no vax mondiali. Qualcuno mi ha detto, però, che l’avrebbe acquistata volentieri, non fosse stato per i seicento euro circa di cartellino che, anche sapendo di aiutare l’Unicef, erano comunque una bella spesa. L’equilibrio fra il riposizionamento verso l’alto dell’offerta di Valentino, cioè il suo costo, e l’acquisizione di una clientela giovane attraverso lo spirito della community sarà la grande sfida del team guidato da Venturini con, diretti riporti ma anche creativi autonomi, il direttore creativo Pierpaolo Piccioli e il chief brand officer Alessio Vannetti. Questa tattica di fashion-seeding, di seminatura capillare, di discesa, letterale, della moda “per strada”, fa parte della strategia di “collocazione di Valentino dove è giusto e naturale che sia” nell’ottica iniziale della “maison” cioè di casa e di intimità.

  

“Chi entra di noi fa un investimento anche emotivo, che non deve essere deluso”. Mentre la colleague-centricity viene condivisa con l’operatività del nuovo responsabile delle risorse umane Rosa Santamaria Maurizio, la funzione di ascolto è stata affidata invece a un ruolo creato ex novo, quella di chief client officer and digital acquisition, a cui è stato chiamato l’ex amministratore delegato di Visa in italia, Enzo Quarenghi: “Vorrei che la voce del cliente entrasse in azienda senza filtri, in modo puro, anche duro se è il caso, perché spesso, fra quello che pensi di fare e quello che viene percepito c’è una differenza”. Questo punto, come logico, non può che riguardare anche la struttura di vendita, ora incentrata attorno alla relazione personale con un solo assistente alla vendita. Azzerata la logica del responsabile “di reparto”, è stato possibile mettere in atto lo stesso sistema di sentimenti e interrelazioni che vige nella couture. Venturini l’ha ribattezzato “couture client telling” e mi è sembrato una – pur interessante – formula manageriale fino a quando ho incontrato per caso sull’aereo per Parigi il direttore del negozio di via Montenapoleone e due assistenti che si preparavano ad accogliere cinque clienti, fra cui tre italiane, per la sfilata della sera, e ad accompagnarle alla visione riservata della collezione la mattina successiva nella showroom di place Vendome. Fino all’altro ieri, questo era il trattamento riservato alle clienti della couture, signore che spendono anche cinquecentomila euro per ordine, spesso di più, e non del pret-à-porter dove anche il cappotto più sofisticato non supera i quarantamila. Con questo, si spiega anche la rivisitazione verso l’altissimo di gamma di buona parte della collezione, compresi cinque pezzi rieditati dall’archivio, con etichetta specifica, fra cui l’abito bianco in crepe e chiffon con fiorellini applicati della celebre “Collezione bianca” del 1968, indossata da Marisa Berenson in un’immagine di Henry Clarke e il lungo cappotto tigrato del 1967 di Verushka. Il taffetà lavato delle grandi camicie, battuto, privato della scintillante preziosità, guarda invece allo stesso pubblico di giovani – l’età media della clientela è scesa nelle ultime stagioni sotto i quarant’anni, gli under trenta sono addirittura la prima fascia, con il 30,4 di presenze - che Valentino va recuperando anche grazie a una serie di iniziative social messe in atto nei giorni dei lockdown: concerti, giochi di auto-scoperta con ilo progetto We’re not really strangers, un progetto digitale che permette di entrare nelle attività quotidiane dell’atelier, a Palazzo Mignanelli a Roma, reso lieve dai disegni dell’artista newyorkese Joanna Avillez.

   

Dicono Venturini e Vannetti che la penetrazione online su Valentino sia aumentata del 55 per cento nell’ultimo anno, e che aver intrattenuto il pubblico al di là della vendita di capi abbia prodotto risultati molto interessanti: la durata media di una sessione da desktop è ormai pari a 8 minuti e 16 secondi, da smartphone di 4 minuti e dieci secondi. Certo, si tratta di un impegno a tutto campo micidiale, del tutto sconosciuto ad altri settori dell’industria che pure investono molto di più di Valentino in termini di media planning e spending. Ma qui si lavora sugli asset intangibili, non sul consumo di merendine, e se l’earn media value del brand è aumentato del 65 per cento fra il luglio 2020 e questa estate, una ragione ci sarà, ed è in questo attivismo sorridente ma anche senza requie, perfino editoriale: nell’ultimo anno e mezzo, Valentino ha pubblicato tre volumi, andati esauriti. “La relazione con il cliente non parte quando entra in negozio e non finisce quando ne esce”, dice Venturini. “Inizia molto prima, cioè quando si condividono valori, estetica, interessi. Le aziende di moda sono sempre più assimilabili a società di entertainment: crei un desiderio e un effetto di evasione. Questo deve accadere in ogni momento”. Anche molto dopo.

   

Nasce infatti in questa logica il progetto “Valentino Vintage” che prenderà le mosse a breve, toccando in contemporanea Milano, Tokyo, Los Angeles e New York (gli Stati Uniti continuano ad essere il primo mercato straniero per la griffe, nonostante siano previste nuove aperture in Cina). Trovare collezionisti e mercanti di abiti vintage o “preloved” all’altezza pare non sia stato facile. A Milano è stata scelta Madame Pauline in foro Buonaparte. A Roma non ne è stata trovata una. Per qualche tempo (non è ancora stato deciso un cronoprogramma definitivo), gli esperti dei negozi vintage valuteranno e selezioneranno i capi portati dai clienti, offrendo in cambio un buono da spendere nella boutique Valentino più vicina. A partire da gennaio del 2022, il progetto si espanderà a livello internazionale e, per un altro breve periodo, il negozio vintage verrà coinvolto in un take over, consentendo a tutti gli appassionati di acquistare capi e accessori. E’ ovvio che, come nel caso della piattaforma di e-commerce vintage di Gucci, anche in questo caso non si tratta di un’operazione che miri a generare business (non credo di sbagliarmi a calcolare il giro d’affari di queste iniziative in una cifra di molto inferiore al milione di euro), ma di un’iniziativa di marketing valoriale.

   

L’idea della moda usa-e-getta sta scomparendo, mentre prende quota la consapevolezza che acquistare second hand sia uno “scambio interpersonale fra chi ha indossato un certo capo prima di te e chi lo indosserà dopo, come un testimone di esperienze diverse e di lunga vita”. Resta il punto di coniugare la produttività e i ricavi. Terminati i buoni propositi formulati durante il lockdown da tutti i brand, (quasi tutta) la moda ha ricominciato a produrre e moltiplicare le collezioni comme si rien était, come nulla fosse accaduto. Riuscirà mai a riformarsi? “Dipende”, chiosa Venturini: “Esiste un modo di riformarsi che scaturisce naturalmente dalla storia che un marchio ha o che non ha. Ci sono marchi che sono scatole vuote”.

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