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Miuccia Prada e le contraddizioni del consumismo

Fabiana Giacomotti

Nella settimana della moda milanese ci si interroga su ambiente, capitalismo e posti di lavoro tra richiami alla “scatola degli scampoli di tessuto” di Arthur Arbesser e la precisione progettuale di Alberta Ferretti

Eppur bisogna vendere. Nel mondo occidentale dove l’inquinamento prodotto dalla moda è una faccenda seria al punto da entrare nell’agenda del G7 e Oxfam invita a non comprare un solo spillo per tutto il mese di settembre, ma a riciclare e riutilizzare la strabordante abbondanza del nostro consumismo, Miuccia Prada si interroga sulle contraddizioni del post-capitalismo e, soprattutto, sulla concretissima questione dei posti di lavoro e delle famiglie che mantiene. Il gruppo Prada ha 4mila dipendenti e, sebbene il suo direttore creativo condivida e abbia sottoscritto qualunque documento sulla sostenibilità le sia stato proposto (“per l’anno prossimo useremo solo nylon riciclato”, dice, e non si può fare a meno di citare quella meraviglia di azienda che è la Aquafil di Arco di Trento da cui il filato rigenerato proviene), non può fare a meno di produrre. Da una parte, “l’eccesso di tutto”. Dall’altra, l’ineluttabilità della missione industriale. Produrre, consumare, creare desiderio grazie alla novità.

 

Seduta sopra la scrivania in una saletta della Fondazione Prada a qualche minuto dalla sfilata, gonna leggera di seta opalescente, maglioncino blu a maniche corte, una straordinaria collana di perle a più fili al collo, le gambe sottili e nervose che dondolano, la signora milanese della moda spiega perché per la collezione primavera-estate abbia voluto “togliere”. “Ho cercato di fare meno”, dice, e sorride: “Ma la moda tende a scapparti di mano”. La collezione, presentata su un set a piastrelle policrome dello studio di Rem Koolhas, riduce, toglie, lavora sull’essenza e sulla personalità della donna che, ancora una volta, sceglie di acquistare un abito, di farlo suo. Per questo, è una collezione in apparenza semplice, ma dalle molte suggestioni e di qualità fatta per durare: se moda dev’essere, che sia per sempre, a lungo, e lungo i suoi archetipi. La giacca del tailleur è doppiopetto e in tessuto maschile, indossata su una gonna leggerissima in garza di seta. La gonna a pieghe in gabardine è ampia, lunga e si annoda sul fianco con un fiocco. I sandali sono a doppio listino largo: solidi, sicuri. È una collezione per la primavera-estate, ma potrebbe essere indossata anche adesso: le polo sono in kid mohair, la maglia a coste sottili, la pelle ricamata a vivo. La sprezzatura, oggettivamente indispensabile in questa collezione di tanti pezzi bellissimi e facili, arriva da una serie di gonne e giacche spalmate oro e da una serie di cappotti in broccato, al tempo stesso sontuosi e rigorosi. In prima fila applaude Nicole Kidman, il volto ormai una maschera di cera che, in questa tendenza verso la naturalezza e la semplicità, appare quanto di più incongruo.

 

Qualche incertezza, dal mondo della moda, proviene anche dall’annuncio che il Legacy Award della terza edizione dei Green Carpet Awards, i premi alla moda sostenibile, sarà consegnato domenica prossima a Valentino Garavani: nessuno discute il suo genio e il suo ruolo nella moda mondiale, ma siamo sicuri che nel suo raffinatissimo cuore abbia mai albergato un solo pensiero green?

 

La settimana della moda milanese, ormai introdotta dal premio ”Chi&Chi” che viene consegnato a Palazzo Marino e che si avvia alla ventesima edizione in grazia e letizia, cioè con molte pressioni per riceverlo (quest’anno, tutti i giornalisti sono stati concordi nell’assegnarlo a Carlo Mengucci per la categoria pr: da quando è arrivato lui, Etro è su tutti i red carpet internazionali e pure nel ristorante storico della moda, Bice, riallestito come un appartamento dello Studio Peregalli per questi giorni), inizia infatti a tenere in molto conto le spinte e le pressioni sociali che ne garantiscono e ormai, in buona parte, ne giustificano, l’esistenza.

 

 

Dunque, ecco un richiamo alla “scatola degli scampoli di tessuto” della nonna di Arthur Arbesser, Matilde, transilvana rifugiata in Austria e alle storie bellissime che raccontava, ecco affiorare ovunque un’idea di recupero, di patchwork, di riutilizzo, anche quando così non è come nella bella collezione di Alberta Ferretti, che allinea con “precisione progettuale” abiti da atelier trasferiti nel pret-à-porter: i pantaloni ampi tie-and-dye mimano l’intarsio, così come le giacche in diverse sfumature di denim. Gli abiti in seta lavata sono costruiti con patchwork di colori alternati a lavorazioni crochet e indossati con borse modello postino in suede intarsiato, un chiaro riferimento ai colori e alle grafiche coloratissime dei Settanta, che le trentenni di oggi aspettano di vivere.

 

A sinistra un'immagine della sfilata di Arthur Arbesser, a destra di quella di Alberta Ferretti