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Da D&G a Kering, nessuno sfugge alla lunga guerra del fisco alla moda italiana

Fabiana Giacomotti

L'accordo tra il gruppo titolare dei marchi italiani Gucci e Bottega Veneta e l’Agenzia delle Entrate chiude la pluridecennale partita della moda con la Svizzera

Milano. “In sintesi, direi che grazie al miliardo e 250 milioni di patteggiamento con Kering, il fisco italiano ha chiuso le sue indagini nella moda con il botto. Altri brand da torchiare non ce ne sono”. Nell’ultimo decennio, nella giostra infernale del fisco sono passati tutti: dai Dolce&Gabbana, assolti in Cassazione in Italia ma poi giunti al patteggiamento negli Stati Uniti per una cifra pari a 34,4 milioni di euro, a Ferragamo, che di recente ha vinto due battaglie contro il fisco nazionale in una querelle che si protrae da anni. “E’ stato bravo Giorgio Armani a chiudere le attività in Svizzera tre anni fa, come hanno fatto Versace e Harmont&Blaine”, dice al Foglio uno dei più importanti avvocati d’affari del Ticino che siede nei cda di alcune fra le aziende della moda italiane più rilevanti e che vuole rimanere anonimo.

 

Giovedì 9 maggio il gruppo Kering, che dai marchi italiani Gucci e Bottega Veneta trae una quota rilevante dei suoi 13,6 miliardi di ricavi a bilancio 2018, ha comunicato “di aver definito con l’Agenzia delle Entrate alcune contestazioni mosse alla propria controllata svizzera Luxury Goods International”. L’accordo comporterà il pagamento di una maggiore imposta pari a 897 milioni di euro, oltre a sanzioni e interessi per un totale di 1,25 miliardi. L’effetto di questa transazione “sul bilancio consolidato di Kering del 2019 sarà pari a circa 600 milioni di euro di imposte addizionali sul conto economico e di circa 1,250 miliardi di euro di flusso di cassa negativo sul rendiconto finanziario”. La querelle attorno alla sede d’affari e alla ripartizione geografico-finanziaria della produzione avrebbe potuto andare avanti per anni, come fu con Dolce&Gabbana a inizio decennio: di fronte a una cifra così importante, il fisco italiano e i suoi ispettori non avrebbero mollato mai, e la famiglia Pinault ha preferito patteggiare e chiudere. Una mossa che, lungi dallo sconcertare il mercato e nonostante il titolo Kering stia subendo un significativo scossone, ha rassicurato gli analisti più attenti come Luca Solca.

 

Ma è chiaro che, salvo alcune aziende e alcuni imprenditori che vivono costantemente in Svizzera dagli anni 70, come Gildo Zegna, dopo una risoluzione del genere la pluridecennale partita della moda con la Svizzera sia chiusa. Giorgio Armani lo aveva capito per primo nel 2016, quando il Parlamento elvetico, su pressione dell’Ocse, abolì gli sgravi fiscali alle imprese estere che negli anni precedenti si erano insediate nella Confederazione. Gli sgravi sarebbero stati in parte compensati con una defiscalizzazione degli utili, e il re di via Borgonuovo intuì che bisognava agire in fretta: al centinaio di dipendenti svizzeri vennero offerti dei modesti incentivi per trasferirsi in Italia. Per altri, come Kering, la questione negli anni si era fatta più complessa, a causa di una differente organizzazione del lavoro e dell’evidenza che, come hub logistico, la Svizzera rimane uno snodo fondamentale.

 

Forse non si è percepita per tempo la stretta progressiva della Svizzera su conti e attività di imprese straniere e, al tempo stesso, l’incredibile necessità dell’erario italiano di recuperare i crediti. La materia delle sedi fisse d’affari è sempre stata rigorosa, osservava il giorno dopo la sentenza Alberto Marcheselli, ordinario di Diritto finanziario e di Giustizia tributaria all’Università di Genova, nel corso di un convegno su moda e diritto organizzato da Pasquale Costanzo, emerito di Diritto costituzionale, e le prime indagini attorno alla moda partirono addirittura nel 1994, durante il primo governo Berlusconi, quasi fosse una coda delle vicende di Mani Pulite. Finirono tutte nel niente o quasi: un paio di patteggiamenti, molte prescrizioni. Che cosa è cambiato nel frattempo? In parte il sentiment generale, in parte la pressione mondiale, Stati Uniti compresi, sulle attività delle proprie aziende nei paradisi fiscali, attuali o ex. In Italia, sono proprio cambiati gli ispettori: dai tempi di Giulio Tremonti l’Agenzia delle Entrate si è dotata di gente in gamba. Lui stesso, quando era (solo) il fiscalista più potente e ricercato d’Italia, aveva discretamente appreso meccanismi e metodi da banchieri e fiscalisti svizzeri. Arrivato al ministero dell’Economia nel 2002, mise in pratica il patrimonio di informazioni acquisite, tanto che le prime, vere inchieste sulle presunte evasioni fiscali della moda datano 2005. Gli 007 della dichiarazione pare siano ancora uomini suoi.

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