Addio a Karl Lagerfeld

Uomo di cultura, fotografo, stilista. Il primo freelance dell'industria della moda. Non era un imprenditore, ma una griffe indipendente a sé. È morto questa notte a 85 anni

Fabiana Giacomotti

All’ultima sfilata couture di Chanel a Parigi, di cui era direttore creativo dal 1983 e aveva da poco rinnovato con un contratto a vita, Karl Lagerfeld non era uscito in passerella. E tutto il mondo della moda aveva iniziato a scriverne il coccodrillo, a lasciarlo pronto per l’evenienza, sapete che razza di mestiere disgraziato è questo. Noi, che pure da anni lo vedevamo trascinarsi sempre più stancamente sul palco, gonfio di medicinali, avevamo preferito allontanare il pensiero, perché “kaiser Karl”, come “re Giorgio”, ci accompagnano con i loro lampi di genio assoluto, le loro dichiarazioni apodittiche, la loro moda pensata e seguita in ogni particolare da quando abbiamo iniziato ad occuparci di questo settore, decenni fa. 

 

Legerfeld è morto questa notte a 85 anni (era nato nel 1933, ma dichiarava sempre si essere nato nel 1935) all’ospedale di Neuilly sur Seine, il quartiere chic dell’élite che era e che aveva voluto sempre essere, con orgoglio di casta intellettuale, con le quattro lingue che parlava a perfezione e con la sua sterminata collezione di libri, dov’era stato ricoverato d’urgenza ieri. Fra due giorni avrebbe dovuto accompagnare Silvia Venturini Fendi in passerella a Milano, per la sfilata del marchio di cui governava lo stile addirittura dal 1965, un sodalizio talmente lungo da essere entrato nella storia della moda. Come lui, che in Fendi aveva prestato i propri tratti – il codino bianco, gli occhiali neri – a un gadget da borsetta di grande fortuna e imitato ovunque, il “karlito”. Adorava la sua gatta, Choupette, che sui social possiede un account per sé e un legato che le permetterà di vivere comodamente (“è una ragazza ricca”), il suo braccio destro Virginie Viard, e si era trovato un erede-mascotte, Hudson Kroening, figlio del modello Brad e di Annie Bollettieri della leggendaria famiglia di allenatori di tennis.Volendo raccontare qualche altro fatto backstage, si potrebbe dire che abbia allevato anche Charlotte Casiraghi, affiancando la mamma Carolina e spingendola a coltivare la passione per l’equitazione. 

 

Karl Lagerfeld, uomo di cultura, fotografo, stilista, grande amanuense (prediligeva i biglietti di ringraziamento scritti a mano, old school), non era un imprenditore, ma una griffe indipendente a sé. Le aziende della moda – e negli anni, oltre a Chanel e Fendi, sono state tante, da Max Mara a Chloè a Hogan a Pirelli per cui realizzò un Calendario di ispirazione greco-classica che forse non fu il suo migliore exploit, fino a H&M, per cui disegnò un decennio fa una capsule collection andata a ruba in un giorno – gli offrivano consulenze milionarie. Mai contratti di dipendenza. Per carità. L’idea del posto fisso gli faceva più o meno orrore: “Amo considerarmi un freelance”, diceva. “Questa parola è l'unione di free, libero come ho sempre voluto essere, e lance che ricorda la parola francese lancé, com'era definita un tempo un'ambita cortigiana. Io mi sento libero e mercenario”. 

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Figlio unico, era nato ad Amburgo il 10 settembre di sicuro (forse, appunto, nel 1933) da Christian ed Elisabeth Lagerfeld. Il padre era socio di una banca d'affari svedese che fece fortuna introducendo il latte condensato in Germania: come tanti prima di lui e con più ragioni di lui che era stato comunque allevato in un contesto di privilegio, si era inventato ascendenze nobili e un’infanzia favolosa. Di certo, era arrivato con la madre a Parigi, già pazzo di moda che aveva scoperto assistendo, sempre con lei, alla sua prima sfilata di Dior nel 1949. Nel 1954, dopo aver vinto un concorso indetto dal Segretariato Internazionale della Lana grazie a un cappotto, aveva trovato il primo ingaggio presso la maison di Pierre Balmain. Dal 1962 era freelancer (il primo) dell'industria della moda, e lavorava tra Francia, Italia, Gran Bretagna e Germania. Dapprima grande amico, aveva poi rotto clamorosamente con Yves Saint Laurent.

 

Storie di moda, di uomini, di rigore estremo (il suo) e parecchia sregolatezza (di Yves). Dior era un po’ il suo chiodo fisso: ragazzino, consultava la stessa veggente armena di Christian, madame Zereakian, che gli aveva predetto la fortuna nella moda e i profumi, e all’epoca in cui Yves Saint Laurent aveva sostituito il fondatore, morto nel 1957, faceva spallucce di fronte agli amici che consideravano il rivale un genio, “anzi, Dio”. Dice la leggenda che la notte precedente alla prima sfilata di Gianfranco Ferré per Dior, alla fine degli Anni Ottanta, Karl Lagerfeld avesse disegnato durante una cena l’intera collezione “che farà sfilare Ferré”, sbagliando di pochissimo. Intuizione, conoscenza dei propri mezzi e di quelli altrui: aveva scoperto Claudia Schiffer e, di recente, Kaia Berger. Aveva commissionato padiglioni espositivi per Chanel a Zaha Hadid e fotografava sempre personalmente tutte le proprie campagne. Della sua clamorosa dieta aveva tratto un libro di memorie e consigli divertentissimo, diventato un best seller mondiale. Lui era rimasto magro. Noi vogliamo ricordarlo di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, dove aveva disegnato una linea a suo nome per Tommy Hilfiger. Ai controlli (disgraziatamente non era uno dei voli privati con cui si spostava sempre), gli era stato imposto di togliere gli stivaletti col tacco: percorse quei pochi metri sulla punta dei piedi, offesissimo e dignitoso. Come dicono gli americani, “Larger than life”.

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