Foto tratta dal profilo Facebook di H&M

Il diavolo veste Instagram

Simonetta Sciandivasci

H&M, marchio simbolo dei low cost per Millennial squattrinati, è in sofferenza. La sua storia ci spiega come sta cambiando il mercato e come comprano i giovani

Sei il capo delle relazioni con gli investitori e del franchising di H&M e una mattina di fine marzo ti trovi sulla scrivania i peggiori dati di vendita di sempre: ti tocca raccontare qualcosa di rassicurante. Nils Vinge se l’è cavata spiegando come, quest’anno, la combinazione di due fattori congiunturali – calo delle vendite in autunno e inverno prolungato – abbia favorito uno straordinario accumulo di merce invenduta. L’amministratore delegato Karl-Johan Persson (fu un Persson, nel 1947, a fondare l’azienda che allora si chiamava Hennes, cioè Le cose di lei) ha aggiunto che la produzione è stata aumentata in vista dell’espansione del negozio online (particolarmente soddisfacente in India) e dell’apertura di 220 nuovi punti vendita (nella seconda metà dell’anno il marchio debutterà in Ucraina e Uruguay). Solo che 4,3 miliardi di dollari di camicie, vestiti, accessori e scarpe in stock (sette punti percentuali in più dello scorso anno, quando l’azienda dovette dichiarare il suo primo calo di vendite negli ultimi vent’anni di attività) e un ribasso del 62 per cento dell’utile operativo nell’ultimo trimestre, dicono che il problema è pregresso e sistemico. “H&M è un relitto al rallentatore”, ha detto l’analista finanziario Rahul Sharma (lo riportava la scorsa settimana il New York Times), uno che nel 2012 applaudiva il successo del colosso svedese, ma già intuiva la marcia in più di Zara, sebbene nessun dato la certificasse: lo scorso dicembre, però, i numeri gli hanno dato ragione (Zara in crescita di otto punti e H&M sotto di dieci). Dunque, sembrerebbe che il problema sia H&M e non la fast fashion, la moda veloce che disegna e confeziona abiti a getto continuo, vendendoli a prezzi molto bassi, che Zara e H&M non hanno inventato, ma sicuramente definito e guidato negli ultimi vent’anni, trasformandola in uno dei fenomeni antropologici più affascinanti degli anni Zero.

 

L’azienda svedese di recente è finita sotto accusa per campagne pubblicitarie sbagliate, danni ambientali, iper-produzione, sfruttamento del lavoro, incoerenza: errori imperdonabili per il decennio del codice etico – fateci caso: ce n’è uno dappertutto e, dove non c’è, viene invocato appena possibile, all’insorgenza di qualsiasi problema. Eppure, la causa principale (trascinante?) della crisi del colosso sta da un’altra parte: nella sua incapacità di adattarsi al commercio digitale.

 

La scorsa estate, Forbes ha rilevato che, più di tutto, ovvero nell’80 per cento dei casi, è il prezzo a orientare gli acquisti dei millennial, la fascia più interessante per qualsiasi imprenditore. Gli elementi di valutazione del prezzo, però, sono assai cambiati da quando la fast fashion è esplosa – cioè a cavallo della crisi, quando ciò che contava erano gli sconti perché avevamo bisogno di negare l’impoverimento e camuffarlo: accumulare grandi quantità di vestiti serviva allo scopo. Era appena cominciata la sbornia della democratizzazione della moda, del potersi permettere capi scopiazzati dalle grandi passerelle a prezzi da bancarella: la voracità del consumo sedava la qualità. Tutto questo ha finito col ribaltarsi in meno tempo del previsto, e per la fast fashion le cose stanno radicalmente cambiando: ha smesso di orientare il mercato e ha perso la sua impermeabilità all’andamento dell’economia (Zara e H&M non avevano risentito degli effetti della crisi). Se il sistema economico del futuro è quello capace di rigenerarsi da solo, cioè quello dell’economia circolare, la moda veloce ha una sola chance di sopravvivere: adottarlo e, così, guadagnarsi la fiducia dei consumatori consapevoli responsabili (in rapido aumento). Incredibilmente H&M muove, in questa direzione, passi più significativi di Zara e di molti altri brand di abbigliamento.

 

Alcuni anni fa, gli svedesi hanno lanciato la World Recycle Week, la settimana del riciclo, invitando i propri clienti a riportare in negozio gli abiti dismessi, affinché l’azienda potesse riciclarli: in cambio, avrebbero ottenuto uno sconto sui nuovi acquisti. Le campagne pubblicitarie sono state tutte perfette: nel 2015, nel video promozionale, compariva una modella musulmana in con l’hijab; nel 2016, invece, cantava M.I.A, amatissima rapper inglese di origini tamil, con un profilo etico da dieci e lode. E’ venuto fuori quasi subito, però, che solo poco più dell’1 per cento di tutti i capi sarebbe stato effettivamente riciclato, anche a causa dell’inadeguatezza delle tecnologie disponibili per le operazioni di recupero dei tessuti. Senza contare che invitare al riciclo per ottenere uno sconto sui nuovi acquisti è risultato immediatamente contraddittorio e ha provato che l’azienda non ha mai inteso rivedere i propri standard di iper-produzione. Sono piovute accuse di greenwashing, che è quella cosa che fanno le aziende quando predicano l’ecologismo ma razzolano nell’inquinamento. L’anno scorso, invero, Greenpeace ha promosso H&M (e Zara e Benetton) per gli sforzi intrapresi a tutela dell’ambiente. Meno nota, eppure impressionante, è l’attività che svolge l’H&M Foundation – organizzazione no-profit voluta e interamente finanziata dalla famiglia Persson – che da due anni ha istituito il premio Global Change Award: un milione di euro in palio per cinque start-up che propongano sistemi di riciclo e produzione tessile ecosostenibili. Tra i progetti vincitori di quest’anno: abiti su misura realizzati con radici di funghi e una tecnica di trasformazione delle alghe marine in biofibre e tinture benefiche per la pelle. L’innovation lead della fondazione è Eric Bang, un trentaquattrenne svedese, ultimo di sei fratelli, che entro il 2020 intende raggiungere almeno un obiettivo: mettere in commercio impianti per la produzione e il riciclaggio di vestiti eco-friendly. Quando Forbes, il mese scorso, gli ha domandato dove sarà tra cinque anni, ha risposto che le scadenze così a lungo termine sono limitanti: le cose cambiano di ora in ora. Eppure, niente di tutto questo sembra aver fatto davvero la differenza per H&M. Anzi. Il povero Nils Vinge l’altra mattina ha avuto una delle peggiori giornate della sua carriera. L’ecologismo non è ancora cruciale: non è in grado di decidere il destino di un marchio. Per adesso, è una delle grandi sfide del futuro a cui è fondamentale cominciare a prepararsi. Non è cruciale neanche l’etica (che però ha un impatto considerevole), sebbene sia stato molto salato il conto presentato dall’indignazione collettiva quando, a gennaio, sul negozio online della catena è comparsa la foto di un bambino nero che indossava una felpa con su scritto “la scimmia più carina della giungla”. Decine di negozi sono stati assaltati e costretti a chiudere in Sudafrica, mezzo mondo ha scritto su Twitter vergogna, razzismo, boicotta H&M che peraltro sfrutta i lavoratori in Bangladesh (cosa che è innegabile, ma molti analisti concordano nel rilevare pure che lì ha migliorato la vita di milioni di persone) e un bel po’ di youtuber hanno dichiarato la dissociazione eterna dal marchio (alcuni altri, però, hanno tentato di spiegare la buonafede degli svedesi, che non hanno mai conosciuto la schiavitù e quindi sarebbero incapaci di rintracciare una discriminazione nell’accostare un bambino nero a una scimmietta).

 

Ma più della pubblicità, ciò su cui il povero Nils Vige e i vertici dell’azienda rischiano la reputazione è soprattutto il digitale, che dell’economia circolare è la spina dorsale. E’ nel passaggio all’e-commerce, la più grande rivoluzione economica del nostro tempo, che H&M si è dimostrata inadeguata. Disporre di un negozio virtuale non è sufficiente. Rahul Sharma ha scritto, qualche mese fa, che mentre H&M continua ad aprire negozi, mentre si lagna del calo di afflusso di clienti fisici, Zara crea flag ship store funzionali alla vendita online. La velocità con cui si avvicendano le collezioni di tutti i brand di moda, sia tradizionale sia veloce, sebbene sia oggetto di ripensamento, resta fondamentale per la concorrenzialità di un’azienda ed è potenziata dalla possibilità di acquisto in rete. Zara, in questo, ha fatto da apripista: ha accorciato la filiera produttiva, avvicinando le strutture di produzione ai mercati di vendita, di modo che il trasporto sia meno costoso e più celere (Messico per il mercato statunitense e Turchia e Africa settentrionale per quello europeo – notarella: qualche mese fa, in alcuni capi venduti a Istanbul sono stati ritrovati dei bigliettini che contenevano richieste di aiuto, scritti dagli operai di una delle fabbriche dove gli spagnoli avevano esternalizzato la produzione, la Bravo Tektsil).

 

Mentre H&M si ostina a iper-produrre, senza prima testare la reazione del pubblico, Zara agisce all’inverso: confeziona pochi lotti di ciascun modello; sottopone a test di mercato almeno diecimila articoli all’anno; manda in negozio, a stagione iniziata, solo la metà della collezione (la media di settore è dell’80 percento). Risultato: il colosso spagnolo riesce a tenere il passo dei cambiamenti in corso durante la stessa stagione, quasi in tempo reale, e questo ha come immediata conseguenza la vendita della maggior parte dell’inventario a prezzo pieno. L’80 per cento dei fornitori di H&M, invece, è in Asia; tra la concezione e la vendita di un prodotto possono trascorrere fino a sei mesi (il massimo di Zara è cinque settimane); pur puntando molto sulla vendita al dettaglio, i negozi non sono curati. Business Insider ha pubblicato un reportage dall’H&M di Soho, a New York, e ha notato una disposizione confusa degli articoli, sconti interessanti su capi che però apparivano fuori moda, la mancanza di carattere di ogni comparto, prezzi irragionevoli – gonnelline di pessimo tessuto a 30 dollari e giubbotti di eco pelle a settanta – troppi capi semplici e, in definitiva, scialbi. E’ qualcosa che possiamo testare noi stessi: Zara somiglia sempre di più a una boutique e H&M a un grande magazzino (Kate Middleton ha indossato Zara più di una volta, ma mai H&M: non è un caso). Persino nell’abbigliamento basic, da sempre il suo punto di forza, il marchio svedese avrebbe oggi da imparare da altri: Uniqlo, il cui fondatore è oggi l’uomo più ricco del Giappone, ha sempre e solo ideato e prodotto abbigliamento minimal, prestando particolare cura alla ricerca dei materiali e vendendo a prezzi più alti rispetto a quelli tradizionali del low cost. Mentre in Giappone comincia a risentire della disaffezione del pubblico (lo ha raccontato Giulia Pompili: i suoi capi sono talmente riconoscibili e diffusi che indossarli è ormai considerato cheap), Uniqlo si sta espandendo con successo in occidente, dove il turning japanese fa sempre fico, tanto che “i suoi maglioncini blu sono una dichiarazione d’intenti” (Rivista Studio, un paio di anni fa). Fedeli alla linea i negozi di Uniqlo: scaffali ordinati e precisi, atmosfera composta, quasi riflessiva, commesse devote.

 

Anche online, dove è arrivata in ritardo rispetto alla concorrenza, H&M è meno allettante di altri: non ispira né racconta storie, non mostra l’intenzione di creare una comunità e sembra quasi impossibile che sia la stessa azienda degli spot con Wynona Ryder, M.I.A., le donne che distruggono gli stereotipi, i giovani che si riprendono il pianeta. Peraltro, gli shop online dei singoli marchi sembrano addirittura superati rispetto ai fashion retailers sulla rete (su tutti, Asos e Amazon, che sembra destinato a convogliare gli acquisti di abbigliamento) o ad applicazioni come ScreenShop, ideata lo scorso autunno da Kim Kardashian, la influencer famosa perché famosa, insieme a una startup. Screenshop funziona così: l’utente invia lo screenshot di un outfit che ha trovato su internet, l’app lo scansiona, individua i capi originali e, insieme, tutti quelli simili a prezzo più conveniente. L’obiettivo è dare a tutti la possibilità di replicare lo stile di una star, pur non avendone i mezzi. A Kardashian conviene guardare per capire come, in media, un giovane è esortato a comprare: ricalcando lo stile dei personaggi famosi per trovare il proprio, mescolando alta moda e fast fashion, mantenendo un margine più o meno significativo di personalizzazione del proprio guardaroba e volendosi molto bene. Saper costruire il proprio guardaroba è indispensabile. Molti youtuber insegnano il processo propedeutico: disfarsi dei capi in eccesso – si chiama closet clarity, una delle prima a chiedersi se non fosse il caso di liberare i cassetti per liberare la fantasia fu, nel lontano 2013, la Clio di “Clio Make Up”, Bibbia virtuale per il trucco e la cura del corpo. Alle operazioni di ripulitura ed esorcismo dell’over dressed (gli adulti arrivano a pagare qualcuno che lo faccia al posto loro o che glielo insegni), si è sposata presto la consapevolezza che l’acquisto compulsivo di vestiti e accessori è controproducente da tutti i punti di vista, e comunque alimentava le grosse produzioni condotte sulla pelle di migliaia di lavoratori sfruttati. Un libro del 2012, Lo scioccante costo della cheap fashion, di Elizabeth L. Cline, è diventato un testo studiato in moltissime università americane e canadesi. Un hashtag di grande successo tra le youtuber è #myboyfriendbuymyoutfit (il mio ragazzo compra il mio look, date un’occhiata a Madison Sarah): si vede nettamente la capacità che hanno non solo di riconoscere la qualità dei vestiti (anche per quella ci sono dettagliati tutorial), ma pure l’importanza che ha, per loro, la mescolanza di stili e di marchi. H&M non la fa esattamente da padrone tra le firme dei vestiti che youtuber o Instagram influencer mostrano di continuo: Zara è molto più presente. Se la cava non male anche COS, che è il marchio chic di H&M, quello che punta a una clientela più esclusiva, danarosa (tanto che non fa sconti né saldi stracciati) e che, tuttavia, paga la lentezza della filiera della casa madre.

 

Insomma la bussola degli acquisti, per i millennial, è il prezzo, ma Forbes specifica anche che, più dello smartphone, prediligono il computer per la selezione dei vestiti in rete: questo consente loro un’attenzione particolare alla qualità, che fino a qualche anno fa era il criterio sulla cui estinzione avremmo scommesso (dettaglio: comprare in rete aguzza anche la creatività: un ottimo esempio è quello di Tailoritaly, piattaforma web dove è possibile comprare e personalizzare dei capi di Pret-a-porter femminile prodotti in Italia). La scorsa estate, tra i cinque brand più ricercati dai millennial c’erano Gucci e Adidas: Zara e H&M assenti. A rappresentare la fast fashion, tuttavia, c’era FreePeople di Urban Outfitters, che tre mesi fa ha aperto a Milano, in Piazza San Babila, nello store prima occupato da H&M. La nemesi. Adidas è un marchio che è tornato a splendere anche grazie alla rievocazione degli anni Novanta, che ha fatto parlare di marketing della nostalgia – costruire connessioni sociali attraverso la nostalgia aiuta le aziende a mostrarsi più umane e a ispirare sentimenti ottimistici, che naturalmente invogliano alla spesa.

 

I trenta-quarantenni di oggi sono una delle generazioni più appassionate al vintage e, sebbene acquistino sempre di più online, amano i mercatini dell’usato, che aiutano a rendere unico il loro stile. Per i millennial vale sempre tutto e il suo contrario e, dal momento che il futuro prossimo è nelle loro mani, qualsiasi proiezione è complicata. Bloomberg ha pubblicato le riflessioni di due reporter economici (uno da Kuala Lumpur e una da Los Angeles), secondo i quali presto l’industria tessile sparirà dai paesi in via di sviluppo, perché le tecnologie rimpiazzeranno, e con grande risparmio, la manodopera. Se davvero andrà così, la moda tornerà a essere iper-localizzata. Entrambi i reporter prevedono la “morte dell’abbigliamento”, in particolare nei paesi del primo mondo: le pratiche di closet clarity ne sarebbero, a detta loro, l’antipasto; presto l’occidente si riempirà giovanotti felici di possedere pochi buoni vestiti e di spendere i propri soldi per viaggiare e mangiar bene. L’usato e il riciclaggio, sul quale la H&M Foundation tanto investe, non hanno un grande futuro, in particolare nei paesi più poveri. Due esempi significativi: già dagli anni Novanta la Cina ha bloccato le importazioni di abbigliamento di seconda mano; l’anno scorso, una fabbrica svedese ha trovato il modo di bruciare i vestiti di H&M per produrre energia e magari sarà così che finirà, tutto l’immane invenduto del colosso: in fumo.

 

E su quelle ceneri, naturalmente, si ricostruirà.

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