Una modella di Max Mara

L'hijab di Halima Aden e il duello Prada-Gucci

Fabiana Giacomotti

Seconda giornata della Milano Fashion Week. La diciannovenne modella somala sfila per Max Mara. E i tassisti si lamentano per l'invasione delle auto blu

Milano. Milano Fashion Week collezioni donna inverno 2017-2018, giorno 2. Fra il festone di Gucci e il ricevimento organizzato da Valentino per presentare la nuova collezione di occhiali nel solito Palazzo Clerici trasformato però in un labirinto di specchi e di nebbia (decodifica del messaggio: gli occhi sono incapaci di vedere; la realtà si legge innanzitutto col cuore e lo diceva perfino Albert Einstein), la prima sfilata del mattino, Max Mara, è già prova di buona volontà. Anche auditiva.

 

Esaurito l’entusiasmo del ritorno al volante dopo la sei giorni di astensione volontaria per le note proteste veterotestamentarie, il tassista acchiappato al volo non ce l’ha infatti più a morte con Graziano Delrio ma con gli NCC, in acronimo “noleggioconconducente”. Buyer, direttori, stilisti e ospiti stranieri di tono ne hanno tutti noleggiato uno, terrorizzati dalle notizie dello sciopero selvaggio che la scorsa settimana avevano lambito le sfilate londinesi (per inciso: tristissime. L’effetto Brexit inizia a farsi sentire, le boutique sono vuote e i nuovi stilisti paiono fin troppo nuovi, cioè privi di solidità). Milano si è dunque riempita di auto blu “che arrivano da tutta Italia”, ringhia il mio possessore di automobilina bianca mentre mi appiattisco sul fondo del sedile per evitare di prendere, come inevitabile, le parti dei baldi giovanotti in giacca e cravatta che in questi giorni scarrozzano trionfanti e orgogliosi Karl Lagerfeld (di ottimo umore: sfilata di Fendi meno scoppiettante del solito ma di sicuro più elegante e facile da portare, dunque da vendere, anche per via della riduzione progressiva delle pellicce intere, sempre più obsolete, in colli, stole e polsi) e Anna Wintour (di umore ancora più imperscrutabile del solito, e volontariamente seduta spesso in seconda fila al fine di allungare comodamente le lunghe gambe ed evitare l’assedio delle telecamere).

 

Da Max Mara, fra velluti lisci e cappotti di orsetto, tema di stagione declinato in rosso rubino, cammello e grigio con la consueta maestria, spunta ancora la testa fasciata dallo hijab già vista ieri da Alberta Ferretti di Halima Aden, la diciannovene somala nata in un campo profughi in Kenya e naturalizzata americana entrata a far parte della scuderia di IMG models, la stessa agenzia di Gigi e Bella Hadid, che la sta imponendo sulle passerelle di tutto il mondo. Nell’ambiente si dice che si sentirà parlare sempre di più di lei. Di certo, la ragazza non sfila con grazia, sempre un po’ curva in avanti e con le spalle protruse della combattente che certo è; un po’ si prova tenerezza per lei, un po’ si spera che possa mostrare un giorno al mondo uno sguardo meno sfidante e ostile. Dopotutto, sta solo indossando vestiti, e sul fronte dei diritti delle donne musulmane nella moda, Iman è arrivata trent’anni prima di lei e aveva pure sposato David Bowie.

 

Il tema della moda che “dopotutto non salva vite umane” è molto sentito nell’ambiente, un po’ per celia e un po’ per non morir come la Madama Butterfly, ovvero a scopi scaramantici e di ironico schermo. Si è tutti molto orgogliosi di far parte di un settore che fattura una sessantina di miliardi di euro e che offre al mondo un’impressione di noi molto diversa da quella dell’impresa di Beppe Grillo (Grillo escluso che infatti ha sposato una famosa ex modella degli Anni Ottanta, per inciso la sorella maggiore della mia compagna di banco al liceo, che tutti guardavamo come un’entità leggiadre e diversa e che infatti di una farfalla porta il nome, Parvaneh), ma è anche vero che a raccontare in giro quanto sia stancante correre da una sfilata all’altra per settimane, sempre sui tacchi e mangiando quando capita, ci si fa solo compatire. Dunque, non salviamo vite umane ma difendiamo un sacco di posti di lavoro a partire sperabilmente dal nostro, per cui eccoci qui seduti negli headquarter di Prada in via Fogazzaro per la sfilata e tutti contenti, sperando che Miuccia Prada riesca a recuperare terreno rispetto a Gucci.

 

Nell’ideale sfida fra fazioni e forze opposte dalla quale originano le religioni più praticate ma anche la mitologia Coppi-Bartali, l’antinomia Prada-Gucci, inesistente fino all’arrivo di Alessandro Michele ai vertici della creatività del brand di Kering, appassiona i modaioli da qualche stagione. Il duello si combatte meno sui vestiti, spettacolari su entrambi i fronti, di quanto si faccia invece sui cosiddetti codici. Il linguaggio, il segno, il messaggio che si trasmette a chi deve desiderare quello che vede e quindi, sperabilmente, comprarlo. Quello di Prada risulta ancora una volta leggermente troppo ricco e privo di unitarietà. Nell’allestimento concentrico studiato da Rem Koolhas, al tempo stesso vastissimo e intimo come una casa corredata di abat jour e di letti, le pareti invase da una serie di poster fra cui spiccano le illustrazioni urbane di Robert McGinnis, i capi sono tutti, presi singolarmente, splendidi. Belli gli abiti interi in lana mohair con la balza applicata ad accompagnare il passo; divertenti gli abiti da cocktail stile Abbe Lane, con le frange e le tripoline di cristalli.

 

Bellissimi i cappotti stampati e fiori e quadri, divertenti le scarpe dalla scollatura alta e la punta lunga, molto Anni Cinquanta, che devono essere il trend di stagione perché da due giorni vediamo solo loro. Ma la sovrapposizione eccessiva impedisce di cogliere appieno la linea di pensiero. Qualche stylist in meno, ogni tanto, gioverebbe. Lungo la strada del ritorno, sosta a Villa Necchi Campiglio per la presentazione del libro e della mostra “Timeless Icones”, ospite Diego Della Valle con la casa editrice Electa che significa Mondadori ma anche Rizzoli dopo la cessione dello scorso anno di cui Urbano Cairo, arrivato al comando un minuto dopo, non riesce ancora a capacitarsi, genere “Varo rendimi le mie legioni” ma Varo alias l’ex ceo di Rcs Pietro Scott Jovane se n’è andato da un pezzo, lasciando ricordi poco simpatici a tanti. Tappa finale al Museo Poldi Pezzoli per il primo memoriale in onore di Marta Marzotto, scomparsa la scorsa estate e molto rimpianta anche dal giro della moda, nel quale aveva piazzato e sostenuto allegramente, oltre a se stessa, figli e nipoti e in particolare i due prediletti, Matteo che ora governa il marchio di easywear Dondup, e Beatrice Borromeo andata sposa a Monaco. Al Poldi Pezzoli, la grande Marta aveva fondato il Club del Restauro, benemerita attività che offre a tante signore bennate, ben disposte e non troppo affaccendate il destro per prodursi in qualcosa di meglio di una partita di burraco. Fra di loro si chiamano le pink panthers, le pantere rosa.