Un momento dell’ultima sfilata di Gucci, per presentare alla settimana della moda donna di Milano la collezione primavera-estate 2017 (foto LaPresse)

Fashion & money

Fabiana Giacomotti

Ecco i bilanci che vanno su e quelli che vanno giù. Quali sono i vestiti destinati a durare nel tempo dopo le sfilate uomo-donna

Lo scorso giugno, presentando il nuovo corso di Gucci prima della sfilata della collezione Cruise nei chiostri dell’abbazia di Westminster (la moda piazza pedane dove non osano le aquile), l’amministratore delegato Marco Bizzarri parlò molto poco di numeri, un po’ di più di clienti e della loro collocazione geografica in una mappa mondiale piuttosto turbolenta, moltissimo di sogni. Come suscitare e mantenere alto il desiderio di un mondo che, quantitative easing o meno, ha bisogno di nulla, certamente non di un’ennesima camicetta o di un paio di mocassini di cui i suoi guardaroba già traboccano. Il titolo della presentazione era “A journey of desire”, e sulla copertina di questo viaggio del desiderio comparivano, accanto alle figure sessualmente ibride che da un anno avevano già fatto la fortuna del nuovo direttore creativo Alessandro Michele, due cigni. Qualcuno (pochi, per la verità) pensarono a Lohengrin, cercando di capire che rotta avesse preso quel signore altissimo e perfettamente calvo in giacca e panciotto che aveva ribaltato le sorti di tutte le griffe dove avesse messo piede, Stella McCartney e Bottega Veneta fra tutte, che con gli analisti e la loro visione a brevissimo termine, un po’ lista della spesa per domani e che le pesche siano succose mi raccomando, non è sempre andato d’accordo.

 

Il lido d’approdo si è visto un paio di settimane fa quando Gucci, dopo aver registrato un’accelerazione dei ricavi pari al 17,8 per cento nel terzo trimestre del 2016, ha annunciato un nuovo balzo del 21,4 per cento nel quarto trimestre, chiudendo l’anno a 4,37 miliardi di euro di giro d’affari. Un dato che, inscrivendosi per un terzo nel giro d’affari totale del gruppo Kering, vicino ai 13 miliardi di euro, ha permesso al patron François Henri Pinault di sottolineare la presa di distanza rispetto “ai concorrenti” decisamente meno performanti del suo gruppo, che significa naturalmente il gruppo LVMH di Bernard Arnault, l’unico che entri davvero nel suo radar, non certo le griffe italiane che, anche nel caso di Prada (3,18 miliardi, in decremento del 9 per cento ma secondo Patrizio Bertelli con buone prospettive per l’anno in corso) e di Giorgio Armani (2,16 miliardi a dati 2015, in crescita del 4,5 per cento), viaggiano a distanza rispetto ai due conglomerati mondiali del lusso.

Tutto un sorriso, il bretone che ha sposato Salma Hayek e che è riuscito a riportare in carreggiata perfino una griffe da decenni in rosso come Yves Saint Laurent ha tenuto soprattutto a mettere l’accento sulla “visione” del gruppo Kering, e cioè “un lusso fondato su un contenuto creativo forte e codici destinati a durare nel tempo”. La chiave per capire che cosa stia succedendo alla moda e per quale motivo Marco Bizzarri sia diventato il manager più potente del settore a livello mondiale è nascosta in queste due parole: la durata e il desiderio. Entrambi riportano al tempo, il fattore che gli analisti e i fondi di investimento tendono a non dare, e che è all’origine dei guai grossi sfiorati anche dalla piccola Braccialini poche settimane fa, oltre che, negli ultimi dieci anni, di tutti i fallimenti, i turn around incompiuti, il livellamento del brand equity alla bancarella del mercato rionale (caso Ferré, purtroppo). Quando un marchio è riuscito a sfuggire alla stretta mortale di un fondo, è perché vi è entrato un imprenditore provvisto di denaro e di lungimiranza (vedi il caso Moncler), o perché lo stesso imprenditore è riuscito a tener buoni gli analisti e la loro generale incomprensione delle dinamiche produttive e commerciali della moda con un colpo di genio, vedi il caso Cucinelli, che snocciolando parabole e massime filosofiche ha reso poetica ed etica anche una crescita annuale attorno o inferiore al cinque per cento, lodato sempre sia il Signore e la regola di san Benedetto se i frutti son più abbondanti (e infatti, con queste premesse, lo sono).

 

Il tempo, dunque, è tornato a essere un fattore cruciale di successo per la moda di alta gamma, ma non nel senso che sembrava averle imposto il pronto moda negli ultimi anni, cioè l’accelerazione forsennata del cosiddetto see-now-buy-now (ordino direttamente dalle passerelle col mio smartphone la borsetta e l’impermeabile che mi piacciono e che mi vengono recapitati in due giorni invece che in cinque mesi; non cito prodotti a caso perché ci hanno provato anche Prada e Burberry), bensì in senso opposto, e per fortuna. Tempi più lenti, ritmi corretti perché il prodotto venga sviluppato senza costringere lo stilista a strafarsi per tenere il ritmo o a schiantare per la pressione di dover produrre idee a getto continuo (vedi John Galliano, tornato padrone di sé alla guida di Martin Margiela, o Hedi Slimane), ma anche capi venduti nel negozio a prezzo pieno per il tempo necessario a far sì che chi li ha pagati cento a marzo non li ritrovi in saldo a cinquanta a maggio; inoltre, presenza contenutissima negli outlet, e anche un po’ di gioia e di allegria, perché nessuno desidera più varcare le porte di un negozio dove aleggia l’aria gelida delle cattedrali e le venditrici celebrano il rito della vendita sdegnose come vestali di Artemide. D’altronde, non si capisce perché un capo o un accessorio proposto dalla pubblicità come il più nuovo, il più cool, il più artigianale e via comunicando, un luogo comune dopo l’altro, dovrebbe esserlo solo per tre mesi per poi finire in un angolo oscuro del guardaroba, pronto per il circuito del vintage o per il museo del costume.

 

L’irruzione di Bizzarri in un sistema che iniziava ad avvitarsi, incapace di tenere il punto, pronto a correre un giorno dietro alle presunte esigenze degli influencer, l’altro a quelle dei “ggiovani”, qualche volta ai fashion victim, raramente a chi compra davvero, ha iniziato a ridare un senso all’intero processo. Il capo inatteso come motore di desiderio, la sua portabilità e la sua durata come elemento di vendita e giustificazione all’(inevitabile) accumulo che, nel fast fashion, viene invece negata fino alle campagne di rottamazione e riciclo dell’abito acquistato (vedi l’esempio del brand &otherstories). Lo storytelling, che in Gucci è un’arte, racconta che Bizzarri e Michele si incontrarono per la prima volta a dicembre del 2014 nell’appartamento romano del designer per il tempo previsto di un caffè e che finirono per parlare di codici, sviluppo e creatività “per quattro o cinque ore”. Michele, da dodici anni in Gucci di cui sei da braccio destro di Frida Giannini che vedeva il mondo con gli occhi di Ian Schrager anni Studio 54, era già con un piede fuori dalla porta; ancora sconosciuto, aveva una buona offerta che non intendeva lasciar cadere. L’8 gennaio, già quarantenne, capelli lunghi e barba da profeta, l’esatto opposto estetico e fisionomico di Bizzarri, Michele prendeva le redini del brand più importante del gruppo Kering, con cinque-giorni-cinque per disegnare, produrre e allestire la sfilata uomo. Quel giorno ero lì, e ricordo benissimo il silenzio con cui vennero accolti quei ragazzini che sembravano ragazzine e che sfilavano insieme con quelle ragazzine che forse non lo erano e chi era chi e chi era che cosa. Ricordo anche quello che ci dicemmo all’uscita dal teatro Gucci (ora abbandonato per gli studi immensi di via Mecenate: le richieste di buyer, influencer e giornalisti da tutto il mondo per assistere ai suoi show riempirebbero uno stadio se fossero accolte tutte) e cioè quanto avrebbe retto, in un marchio di alta qualità ma non di nicchia come Gucci, un uomo di certo geniale ma che capovolgeva al tempo stesso i canoni della moda e anche quelli di genere. Alla seconda occhiata, risultò evidente che, sotto quell’impronta sociale e quella sorta di manifesto politico-sessuale, la moda di Michele era facile da comprendere e facilissima da indossare, sofisticata ma anche pop, e che ogni cliente, da un capo all’altro del globo, passato il primo momento di stupore vi avrebbe trovato qualcosa di vicino alla propria sensibilità. Una moda, insomma, adatta per questo momento storico e per il suo mantra, l’inclusione, che dalle encicliche di Papa Francesco si è allargata fino a lambire le vetrine di Montenapoleone, alla faccia delle teorie di Simmel sull’elitarismo dell’abbigliamento.

Lo Scenario di Gucci - Milano Fashion Week Uomo P/E 2017 (foto LaPresse)


 

Due anni dopo questa rivoluzione, il mondo della moda fast and furious è dunque qui a guardare i risultati della fiducia e del tempo (pare che al cambio di rotta, l’Oriente stia iniziando a reagire solo adesso, e che Bizzarri abbia visitato uno per uno tutti i negozi del gruppo per raccontarlo, stringendo qualcosa come tremila mani), e quello della moda italiana in particolare a interrogarsi su quale strada prendere. Il doppio scossone impresso al sistema della moda da Gucci dal punto di vista creativo e strategico e del sistema finanziario dall’altro è stato poderoso, al punto che nomi come Prada, per un paio di stagioni, hanno letteralmente perso la testa, ondeggiando fra mesti rigori di nylon e styling sovraccarichi, prima di tornare con la consueta maestria agli stampati da tappezzeria anni Sessanta e alle camicine abbottonate dichiarando di voler recuperare i propri “codici”, ma puntando soprattutto a ricreare quell’incantesimo di charme della bruttezza di cui sembra (sembrava?) aver smarrito la formula. Molti, moltissimi altri, si sono messi semplicemente a imitare Gucci, producendo intere spianate di mocassini a tacco alto con le lunghe frange in pelle glitterata oro ed eserciti di pigiami di seta fiorata. Guardate tutti i marchi di seconda fascia, da Pinko a L’autre chose, e vi sarà chiaro chi ispiri almeno un terzo delle loro collezioni. Però, ben oltre i cappellini con la veletta da zia d’Inghilterra e le camicette con il fiocco da Margareth Thatcher (Michele ha vissuto a lungo in Inghilterra: certe tradizioni si assimilano in via definitiva), il nodo centrale della rivoluzione apportata dal formidabile duo nel sistema della moda italiana è ancora un altro ed è molto delicato sia dal punto di vista politico sia da quello commerciale e, in seconda battuta, turistico, in quanto tocca direttamente una delle sue colonne portanti, e cioè la presentazione delle collezioni uomo. Dopo qualche dichiarazione di intenti e qualche evento per così dire di prova, Gucci ha saltato la tradizionale settimana della moda maschile di gennaio e farà sfilare la doppia collezione, uomo-donna, il 22 febbraio per l’appunto negli studi di via Mecenate. La sua scelta è del tutto giustificata non solo dai fattori commerciali e strategici già analizzati e a cui va ad aggiungersi un elemento di ottimizzazione produttiva non trascurabile, ma dalla stessa filosofia perseguita dal direttore creativo. Il fatto è che diversi altri brand, pur privi delle stesse motivazioni (vedi Bottega Veneta, dove il tema no gender è per nulla sentito) e dunque spinti da una pura esigenza di taglio dei costi e ottimizzazione dei cicli produttivi in un mercato nazionale che, per il momento, è ancora fermo sull’export e stima una crescita inferiore all’uno per cento nell’anno in corso, stanno seguendo l’esempio di Gucci, con il risultato che la Fashion Week maschile appena trascorsa mancava di molte presenze importanti, mentre l’universo che ruota attorno a Pitti Immagine e in particolare alla manifestazione di Pitti Uomo, una macchina da guerra di caratura internazionale retta da un altro uomo di vaste competenze e infinite relazioni anche politiche come Raffaello Napoleone, sta diventando il punto di riferimento per il settore.

 

Ora, è chiaro che il dualismo fra Firenze e Milano non può che portare forza ad altre piazze e ad altri sistemi, primo fra tutti quello inglese che, non a caso, è andato rafforzandosi in questi anni, grazie anche a una tradizione (i codici, sempre i codici), pluricentenaria. E’ però anche vero che l’attuale composizione della Camera della Moda, calibrata su una presenza anche finanziariamente più rilevante dei marchi più forti che da qualche stagione vi aderiscono in proporzione al proprio fatturato e che dunque, di fatto, ne decidono le politiche, non ha in apparenza un particolare interesse a seguire una strada diversa rispetto all’accorpamento fra le sfilate uomo e donna. Fra i consiglieri, solo Gildo Zegna presenta la sola collezione uomo, mentre Valentino, l’altro marchio in grande ascesa anche fra gli opinionisti mondiali della moda, ha una presenza rilevante anche nella moda uomo, ma sfila a Parigi. L’ultima volta che accettò di farlo in Italia, fu a Firenze.

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