Le Mura Aureliane (LaPresse)

muri e propaganda

Il guaio dell'imperatore Aureliano? Non i barbari, ma l'economia. Così costruì le Mura attorno a Roma

Siegmund Ginzberg

A che serviva quella nuova cinta lunga 19 chilometri, mai del tutto completata? L’unica certezza è che la decisione fu presa in un momento di accumulo di grandi difficoltà, nel bel mezzo di una crisi epocale. E da sempre le Grandi Muraglie hanno avuto soprattutto una funzione psicologica

La Grande Muraglia della Cina non fu mai completata. Era più che altro un mito, un’illusione ottica. “The Wall”, Il Muro per antonomasia di Trump, è rimasto a metà da quando c’è Biden. Con le elezioni dietro l’angolo ora però annunciano un nuovo segmento. Il Muro di Berlino non ha difeso ma mandato in frantumi il comunismo. Noi abbiamo spezzoni delle Mura aureliane. Ma perché l’imperatore Aureliano fece costruire le mura che portano il suo nome? A che gli serviva quella nuova cinta lunga 19 chilometri, mai del tutto completata? L’interrogativo mi frullava mentre nei giorni scorsi visitavo le Mura aureliane, il più esteso monumento dell’antica Roma, grazie ad un’iniziativa della Sovrintendenza Capitolina.

Non c’è una risposa univoca. Ci sono molte ipotesi. Servivano davvero a difendere la città dai barbari? Oppure a fronteggiare il calo di consensi? Erano un escamotage propagandistico? Servivano a dirottare il malcontento per il caro prezzi, dovuto al fatto che si rischiava di perdere l’approvvigionamento di grano dall’Egitto? A far credere che il nuovo imperatore aveva un progetto di governo valido?

L’unica cosa certa è che la decisione fu presa in un momento di accumulo di difficoltà. Una sorta di “tempesta perfetta”, nel bel mezzo di una crisi epocale (la “crisi del terzo secolo”). Roma era nel panico. Le migrazioni premevano, un popolo nomade dietro l’altro, dai Balcani e dall’area che oggi sono Ucraina e dintorni. Ad Est l’impero di Palmira, guidato da una grande regina, Zenobia, si era impadronito anche dell’Egitto e minacciava gli approvvigionamenti di grano. Una rivolta dei monetarii, i lavoratori della zecca, aveva sconvolto la capitale proprio mentre l’imperatore era occupato ad arrestare gli Iutungi, uno dei tanti popoli germanici, che dilagavano nella pianura padana. Aureliano, rientrato in fretta a furia dalla Pannonia (l’attuale Ungheria) aveva cercato di fermarli a Piacenza. Non ci erano riusciti. Li aveva poi sconfitti più giù, a Fano, e inseguiti fino a Pavia, recuperando il loro bottino e guadagnandosi il titolo di Germanicus Maximus.

Ma il problema più grosso non era l’immigrazione barbara. Era la sfiducia nella moneta. Che poi è sfiducia nel governo. Gli fu molto più difficile aver ragione della rivolta dei monetarii, i lavoratori del conio. Erano guidati da un rationalis, un alto funzionario delle finanze. Ne conosciamo solo il nome: Felicissimus. Aureliano lo disprezzava come “l’ultimo dei suoi schiavi”. Fonti asservite al potere come la Historia Augusta – c’è chi le definisce “criminalmente asservite” – insinuano che facesse la cresta sui ritagli della lavorazione delle monete. Relegano la rivolta a rivendicazioni sindacali, corporative. Sta di fatto che i conti non quadravano.

L’espediente di inflazionare la moneta aggiungendovi sempre più piombo e sempre meno argento accelerava il disastro. Il contenuto di argento del denarius nei primi tempi dell’impero era ancora del 99 per cento, Quando Aureliano fu proclamato imperatore dai suoi soldati, l’argento era sceso a poco più del 2 per cento. Il potere ruotava anche allora attorno al soldo. Il 75 per cento delle monete coniate a Roma serviva a pagare i soldati. Per chiunque non volesse rischiare un ammutinamento dei soldati era essenziale avere zecche a portata di paga per l’esercito. Con la zecca di Roma fuori gioco, causa la ribellione dei monetarii, restavano operative solo quelle di Milano, di Siscia in Pannonia e Cizico in Asia minore. Nei cinque anni che fu imperatore giunse a controllarne una decina, tra cui due nei Balcani, una a Treviri e un’altra a Lione (che gli consentìrono di riprendere il controllo delle Gallie), e una a Tripoli, che gli garantiva il controllo delle province africane. L’impero aveva ripreso fiato grazie alla stabilizzazione della moneta.

Per domare la rivolta dei monetarii a Roma ci vollero feroci combattimenti casa per casa, negli angusti vicoli dell’Urbe. Persero 7000 uomini, più che nelle campagne contro i migranti barbari. Già che c’era, Aureliano fece giustiziare anche un certo numero di senatori. Così fece i conti con l’opposizione politica. Ma non gli servì. Fu ammazzato pochi anni dopo. Non da un oppositore ma da un suo strettissimo collaboratore, uno degli ufficiali del suo Stato maggiore.

Gli imperatori romani morivano raramente nel loro letto. Così come anche gli imperatori dell’antica Cina. Venivano fatti fuori dai loro, non dai nemici. La cosiddetta “crisi del terzo secolo” aveva visto tra il 235 e il 284 il succedersi di 26 imperatori ed usurpatori. Un’era di “anarchia militare” si è scritto. Ma c’è chi, come lo storico polacco Adam Ziolkowski, sostiene che più delle ambizioni personali e della sete di potere dei singoli comandanti militari, pesavano le divergenze politiche tra le diverse fazioni.

Cosa aveva spinto dunque Aureliano, con tutte le gatte da pelare che aveva, a ordinare la costruzione, e in fretta furia, di un’opera così imponente e costosa? La difesa della capitale? Certo. Ma a percorrere il perimetro delle Mura aureliane la prima cosa che salta agli occhi è che il muro originario non avrebbe garantito granché in termini di difesa. Quello era alto pochi metri. Nella muratura si possono scorgere ancora i merli originali, a un terzo circa dell’altezza attuale. Già secoli prima, nell’età di Augusto – che si vantava di aver trovato una Roma di mattoni e averla trasformata in un città di marmo – molte città italiche si erano dotate di mura, ma per esibirle, per ragioni di prestigio, non per difendersi.

Aureliano era stato ufficiale, poi capo supremo della cavalleria romana. La sua strategia vincente era sempre stata improntata alla mobilità. Cingere Roma di una nuova muraglia poteva servirgli tutt’al più a farla resistere il tempo necessario all’arrivo dei soccorsi. Massenzio la rafforzò, ma non ne fece uso. Forse era convinto che la città pullulasse di spie e agenti di Costantino e ritenne che fosse più sicuro affrontare l’avversario fuori dalle mura, oltre Ponte Milvio. Sappiamo che gli andò male. Nessun nemico avrebbe assediato le mura di Roma prima dei Visigoti di Alarico, nel 410, quasi un secolo e mezzo dopo l’inizio della loro costruzione. Le mura originarie erano state quasi raddoppiate in altezza appena pochi anni prima. Ma Alarico mise a sacco Roma entrando tranquillamente dalla Porta Salaria, che era rimasta inspiegabilmente aperta. Il successivo Grande sacco del 1557, ad opera delle truppe imperiali di Carlo V, avvenne senza che fossero fermati da alcun impedimento. Papa Clemente VII aveva licenziato le proprie truppe perché non era in grado di pagarle. Era convinto di poter scendere a patti di con Carlo. Ma anche l’imperatore non pagava da tempo i suoi lanzichenecchi. E questi si presero quanto gli era dovuto, più gli interessi, saccheggiando la capitale della Cristianità. Ancora una volta le mura erano state a guardare. L’ultimo saccheggio, il più immane, quello della speculazione immobiliare, dopo che i bersaglieri erano entrati nel 1870 dalla breccia di Porta Pia, continua ininterrottamente da allora.

Da che mondo è mondo le Grandi muraglie sono servite a tener fuori, o a tener dentro. Il Muro di Berlino fu l’esempio più egregio di quest’ultima sottospecie. Le Mura aureliane servivano per tenere tener fuori gli indesiderati? Improbabile. Al tempo di Aureliano Roma non era più la megalopoli di un milione di abitanti vantati in epoca augustea. Con tanto di celebrazione come padre fondatore del profugo Enea. Calo delle nascite, epidemie, dissesto economico avevano probabilmente già più che dimezzato la popolazione. E comunque restava una città cosmopolita. I cittadini erano quasi tutti figli di immigrati in epoche diverse, di ex schiavi ed ex liberti, di ogni etnia e da ogni angolo del mondo. Immigrati erano gran parte dei lavoratori e degli artigiani. Dalle etnie più disparate provenivano ormai anche i soldati. Un po’ come l’America. Sulla diversità e la mescolanza, continua a fondarsi tuttora la fortuna demografica ed economica degli Stati Uniti. Nonostante il gran strepito sull’invasione dal Messico. E’ ben possibile che i vecchi immigrati ce l’avessero con i nuovi immigrati. Che ci fossero mugugni verso gli stranieri, per essere più precisi verso i “nuovi stranieri” tipo quelli che trasudano dal “vaffa” universale di Giovenale. A Londra ho dei consuoceri indiani. Entrambi avvocati. Hanno votato conservatore e per la Brexit. Ce l’hanno, loro vecchi immigrati, coi nuovi. I limes imperiali romani, dal Vallo di Adriano alle fortificazioni ai confini orientali, erano certo anche sistemi anti-immigrazione. Così come lo fu la Grande Muraglia della Cina. Ma non avrebbe molto senso per le Mura aureliane.

Roma era nel panico per la paura del tracollo economico, più che per i barbari alle porte. Non bastava l’assistenza e la distribuzione alla popolazione di grano a basso costo. Dovevano trovargli lavoro. Garantire vie di comunicazione e di interscambio. Forse più importanti delle Mura stesse sono le aperture in corrispondenza delle principali strade, da cui persone e merci entravano ed uscivano. Riscuotere tasse e gabelle era più importante che sigillare la città. Così come la Grande muraglia cinese era funzionale all’interscambio con i barbari nomadi (grano e manufatti in cambio di cavalli) più che a tenerli a distanza. La costruzione in tempi serrati, appaltata alle corporazioni di mestieri, servì a creare “lavoro pagato per migliaia di cittadini che altrimenti sarebbero rimasti nullafacenti”, con tutti i rischi che ciò avrebbe comportato, osserva Hendrik W. Dey, autore di The Aurelian Wall and the Refashioning of Imperial Rome, A.D. 271-855 (Cambridge University Press, 2011).

 

Strato su strato, rifacimento su rifacimento, anche le Mura di Aureliano, sono innanzitutto un grande racconto. Mattone per mattone narrano storie che evocano, per analogie, la nostra attualità. Non per niente le Grandi muraglie hanno affascinato scrittori del calibro di Kafka, Borges, Ismail Kadaré. Le loro pagine ci dicono cose più profonde di tutto quello che ci dicono gli storici, gli archeologi. Alain Schnapp gli dedica il capitolo conclusivo della sua monumentale Storia universale delle rovine. Dalle origini all’età dei Lumi, ora tradotta e meravigliosamente pubblicata da Einaudi.

Kafka è Kafka. Impareggiabile. Basta prendere a caso poche righe. “Si procedeva così: si formavano gruppi di circa venti operai che dovevano erigere una parte di muro lunga all’incirca cinquecento metri, mentre un gruppo vicino costruiva incontro a loro un muro di eguale lunghezza. Ma una volta raggiunto l’incontro, la costruzione non veniva continuata ai capi di questi mille metri; i gruppi di operai venivano invece spostati per la costruzione del muro in tutt’altre regioni. Naturalmente in questo modo si formavano molte grandi lacune […] Ma come può difendere una muraglia che non sia costruita senza interruzioni? Anzi un muro così non solo non può difendere, ma la costruzione stessa è in continuo pericolo. […]”. Un continuo fare e disfare. Un ponte non regge se è ammalorato anche un solo tirante, un guardrail è inutile se ne manca anche solo un pezzetto. Kafka aveva presente la burocrazia del suo impero austro-ungarico, forse già ne presentiva il crollo finale. Vale per le Mura aureliane. Ma pure per il PNRR o il Ponte sullo Stretto. La Muraglia è una metafora della politica. “Esattamente così, senza speranze e pieno di speranze, il nostro popolo vede l’imperatore. Non sa bene quale imperatore regni ed è persino in dubbio sul nome della dinastia […] Se da tali fenomeni si volesse argomentare che in fondo non abbiamo nessun imperatore, non si sarebbe lontani dal vero”.

Per Borges, che aveva letto Kafka, costruire muraglie e bruciare i libri e gli autori dei libri indesiderati sono assolutamente complementari. Oggi si dice: “cambiare la narrazione”. Per Kadaré, che conosce sia Kafka che Borges, la fatiscenza “fa male al cuore”. “A causa di questo stato di abbandono e dell’estrazione delle sue pietre [licenza poetica, era fatta di mattoni e terrapieni] da parte degli abitanti dei dintorni, si è così rimpicciolita che supera a malapena le dimensioni di un cavaliere sul suo cavallo, per non parlare dei suoi segmenti a cui di Muraglia non resta altro che il nome”. Lo scrittore albanese pensa alle rovine del socialismo reale.

La cosa su cui quasi tutti concordano è che le Grandi Muraglie avevano soprattutto una funzione psicologica, di propaganda. Ma la propaganda va in frantumi se cozza con l’economia. Devo molte delle riflessioni qui sopra, specie quelle sulla questione monetaria, ad una tesi ancora non pubblicata, del 2023, di Alexander Moss per l’Università di Glasgow: To what extent did Aurelian successfully stabilise the Roman Empire during his reign with his campaigns, policies and reforms? Le due preparatissime funzionarie della Sovrintendenza di Roma che ci hanno accompagnato nella visita (ho scoperto che ogni sezione delle mura ha un funzionario responsabile) hanno appena pubblicato una Guida delle mura di Roma. Itinerari alla scoperta della città fortificata (Palombi 2023) che viene ad aggiungersi alla sterminata bibliografia sull’argomento. Sono pure estremamente fotogeniche. Vedasi lo splendido Walls. Le mura di Roma, di Andrea Jemolo (Treccani 2018).