IL FOGLIO DEL WEEKEND

Il centrodestra che svanisce: i motivi di un declino

Luciano Capone

Le forze conservatrici e liberali non hanno saputo declinare in modo coerente alcune sfide della modernità. E non sanno ancora dare risposte precisa a quattro questioni fondamentali. Così la lunga e silenziosa crisi dei “moderati” diventa un serio problema per il futuro delle democrazie europee

La foto tra Silvio Berlusconi e Angela Merkel, a margine della riunione del Ppe che ha preceduto il Consiglio europeo, immortala la fine di un’epoca  – quella della Cancelliera – e ricuce un rapporto che, dalle risatine insieme a Sarkozy durante la crisi dei debiti sovrani ai fantomatici epiteti poco eleganti in intercettazioni inesistenti, si voleva pessimo: “La nostra collaborazione ha sempre avuto risultati positivi – ha detto il Cav. – ha sempre avuto  un atteggiamento positivo e molto amico nei confronti del nostro paese”. Immagini come il saluto tra due importanti leader del centrodestra europeo, alla fine di una lunga stagione politica, portano con sé sempre un po’ di nostalgia e servono a rievocare il passato. Ma in questo caso rappresentano anche la crisi profonda del centrodestra – della destra “moderata”, mainstream o liberalconservatrice che dir si voglia. Berlusconi è il caso più eclatante in Europa: guida una forza politica che aveva raggiunto, dopo aver inglobato la destra post-fascista di An, quasi il 40 per cento dei consensi (una quota superata solo dalla Democrazia cristiana) e che ora si aggira attorno al 7 per cento e fa parte di una  coalizione trainata da partiti di destra radicale. Ma anche Merkel, che ha governato la Germania per 16 anni e guidato il partito cristianodemocratico più importante d’Europa, lascia una Cdu in profonda crisi e con il peggiore risultato elettorale della sua storia.


In questi anni si è parlato e scritto tantissimo della crisi dei partiti laburisti e socialdemocratici, che hanno subito pesanti sconfitte, profonde trasformazioni ideologiche e perdite di consensi. Dal Pasok in Grecia, al Partito socialista in Francia, fino al Partito del Lavoro in Olanda crollati al 6-7 per cento, fino ai partiti socialdemocratici più grandi del Nord Europa che hanno subito un costante declino nei consensi e, anche quando riescono a vincere, restano attorno al 20 per cento. E allo stesso tempo è stata posta tantissima attenzione, con una produzione giornalistica e scientifica enorme, all’ascesa della destra radicale in tutta Europa, dato che improvvisamente praticamente ogni paese si è trovato con almeno un partito populista tra il 5 e il 20 per cento. Mentre si è discusso pochissimo del lento, ma anch’esso inesorabile, declino dei partiti di centrodestra: dal partito gollista (Les Républicains) in Francia al Partito popolare in Spagna, da Forza Italia al Partito moderato in Svezia passando per la Cdu in Germania e la trasformazione del Partito conservatore in Regno Unito.


Tra i pochi tentativi di affrontare la questione c’è un libro appena pubblicato da Cambridge university press: “Riding the populist wave - Europe’s mainstream right in crisis” curato dai politologi Tim Bale, il principale studioso della destra mainstream e dei partiti conservatori in Gran Bretagna, e Cristóbal Rovira Kaltwasser, un esperto di populismo, che raccoglie saggi specifici per ogni paese europeo sui problemi che affronta la destra mainstream. E', come si diceva, uno dei pochi lavori sul tema, probabilmente perché il declino dei pariti di centrodestra è stato più graduale e meno fragoroso di quelli di centrosinistra. Ma, secondo gli autori c’è anche un’altra ragione della scarsa attenzione sul tema, che riguarda la comunità accademica: siccome i politologi sono in gran parte affini alle idee di centrosinistra e alle cause progressiste, pongono maggiore attenzione ad analizzare i partiti politici con cui tendono a identificarsi di più (socialdemocratici e laburisti) e quelli a cui si oppongono maggiormente (le forze della destra estrema e populista), rispetto a ciò che accade nella destra moderata (partiti cristianodemocratici e liberalconservatori). In ogni caso, anche la scarsa attenzione a ciò che accade in questa parte del campo politico è un segnale di cattiva salute del dibattito pubblico, perché le forze democratico cristiane, popolari, moderate e liberalconservatrici sono quelle che hanno costruito l’Europa (basta guardare il profilo politico-culturale di Adenauer-De Gasperi-Schuman) e un pilastro fondamentale delle democrazie occidentali.        


Bale e Kaltwasser nel libro propongono come causa della crisi della destra moderata due sfide della modernità. La prima è quella che viene chiamata “rivoluzione silenziosa”, ovvero la graduale adozione dopo il ‘68 di comportamenti e preoccupazioni post-materialisti su temi come la pace internazionale, il rispetto per l’ambiente e i diritti civili. La seconda, in direzione opposta, è quella che viene definita come “controrivoluzione silenziosa”: una reazione a questa cultura post-materialista che ha concentrato l’attenzione sull’identità culturale e sul rifiuto del multiculturalismo e dell’immigrazione. Queste due ondate hanno prodotto prima i Verdi e successivamente le forze della destra populista. Ma hanno prodotto una doppia erosione al blocco socio-economico dello storico centrodestra: al centro sono emerse forze politiche che hanno preso i voti delle classi più benestanti e istruite con posizioni più “liberali” su immigrazione e diritti civili, a destra quelle che hanno sottratto consensi tra le classi meno ricche e istruite che hanno subìto le conseguenze e la paura della globalizzazione e dell’immigrazione. 


Naturalmente in ogni paese il centrodestra ha suoi problemi specifici e le cause della crisi sono diverse. Del caso italiano si parla nell’ultimo numero della rivista il Mulino, dal titolo “Che succede a destra?”, in cui il politologo Alessandro Campi indica le criticità genetiche del progetto berlusconiano che, dopo il collasso della Dc e della Prima Repubblica, si è letteralmente inventato il centrodestra, che era essenzialmente “un blocco socio-sociale anti-sinistra” e sul piano ideologico “un’amalgama di anti-comunismo, anti-partitismo e anti-statalismo anarcoide, tre atteggiamenti mentali fortemente radicati nella cultura diffusa del moderatismo nazionale sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso”. E’ evidente che questa formula fusionista – che univa post-Dc, post-fascisti, liberali e leghisti – non poteva sopravvivere alla crisi della leadership carismatica di Berlusconi, soprattutto in un sistema di partiti fragili e poco strutturati anche dal punto di vista dell’elaborazione politico-culturale. E così l’elettorato berlusconiano si è disperso, in parte fuoriuscito e  intercettato dal fenomeno Renzi e poi finito nell’astensionismo e in gran parte risucchiato dal richiamo sovranista di Salvini e Meloni. 


Sarebbe però un errore pensare che la crisi della destra moderata sia solo un’anomalia italiana. Anche nel resto del mondo le grandi case moderate hanno subito gli stessi scossoni. Negli Stati Uniti il Partito repubblicano è stato egemonizzato dal radicalismo di Donald Trump. Ma per restare in Europa, in Francia il partito gollista si è trovato schiacciato tra il fenomeno Macron a sinistra e Marine Le Pen (ora Zemmour) a destra. Anche in Spagna la grande casa popolare si è tripartita, anche se ora sta tentando una ricomposizione: da un lato i liberali di Ciudadanos, al centro il Partido Popular e a destra i post-franchisti di Vox. Qualcosa di analogo è accaduto alla Cdu in Germania, che ha perso i voti verso i liberali della Fdp da un lato e verso l’estrema destra dell’Afd dall’altro soprattutto dopo la crisi migratoria. 


La destra mainstream europea si trova di fronte a quattro sfide molto importanti, a cui non sa dare ancora risposte precise: l’integrazione europea, l’immigrazione, i diritti civili e le questioni etiche, il welfare state. L’Unione europea è un grande progetto nato proprio su impulso delle forze moderate, che vedevano nell’integrazione una possibilità per rafforzare ed estendere la liberaldemocrazia capitalistica e, allo stesso tempo, un baluardo politico ed economico contro la vicina minaccia sovietica. Negli ultimi dieci anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria e migratoria, l’Europa è vista con sempre più diffidenza se non ostilità negli elettorati di centrodestra ed è diventato un elemento di divisione tra i partiti del nord e del sud Europa. L’atteggiamento sull’immigrazione e l’ascesa delle forze populiste è un altro elemento che sta portando a una ridefinizione dell’identità dei partiti moderati, spesso in contrasto con la propria storia. Stesso discorso riguardo i temi etici e i diritti civili. Ma anche sul welfare, dove tendenzialmente era predominante contraria a uno stato interventista, qualcosa sta cambiando man mano che i partiti di destra intercettano voti tra le classi lavoratrici ostili all’immigrazione che magari in precedenza votavano a sinistra. 


Di fronte a queste enormi sfide, spesso i partiti moderati di centrodestra europei anziché fare un’elaborazione politica per presentare una nuova offerta agli elettori si sono lasciati guidare dalla volontà di stare al governo, trovando di volta in volta la soluzione più conveniente. Ognuno in Europa se l’è cavata come ha potuto, procedendo in ordine sparso. Il caso più emblematico è quello italiano, con Forza Italia che in Europa è stata fedele sostenitrice di Angela Merkel e in Italia era alleata con Matteo Salvini che metteva in programma l’uscita dall’euro. E ancora adesso è al governo con Draghi e si prepara a correre alle elezioni con chi, come Giorgia Meloni, è all’opposizione.


Questa crisi che porta i partiti moderati a fare scelte opportunistiche nazionali conduce a un altro paradosso. Che mentre esiste un’internazionale sovranista che si incontra e indica obiettivi politici condivisi su comuni basi valoriali, la destra tradizionale che ha geneticamente una vocazione internazionalista non riesce a elaborare un progetto o una visione comune.


Nel giugno del 1983 tutti i principali partiti di centrodestra del mondo si incontrarono a Londra per dare vita all’Unione Internazionale Democratica (Idu), fondata sulle “convinzioni comuni che le società democratiche forniscono agli individui in tutto il mondo le migliori condizioni per la libertà politica, la libertà personale, l’uguaglianza di opportunità e lo sviluppo economico sotto lo stato di diritto”. Erano gli anni in cui erano da poco arrivati al governo Margaret Thatcher nel Regno Unito, Ronald Reagan negli Stati Uniti ed Helmut Kohl in Germania, leader che avevano anche sensibilità  diverse, in particolare il Cancelliere tedesco, ma che alla base avevano una comune visione della direzione verso cui sarebbero dovute andare le società occidentali: più democrazia e più libero mercato. “L’incontro di oggi è un’occasione storica. Per la prima volta, i leader dei partiti di centrodestra di tutto il mondo si sono uniti per promuovere quei valori e quelle idee che tutti condividiamo: libertà, giustizia e democrazia rappresentativa – disse la Thatcher in apertura del meeting –. La nostra Unione Democratica Internazionale cinge la terra. Non è un impero, ma sarà, speriamo, un grande dominio della mente e dello spirito”. 


Oggi, come ha scritto Daniel Finkelstein sul Times, è difficile immaginare un incontro così ottimista sul futuro e così coerente nei princìpi e negli obiettivi come quello delll’Unione Internazionale Democratica perché “ogni parte del suo nome è in discussione. Non è più chiaro se i partiti della destra mainstream siano internazionalisti, democratici o uniti”. Inoltre, all’epoca quei partiti avevano in comune un nemico: l’Unione Sovietica. “Un anno fa – disse sempre in quell’incontro l’allora vicepresidente americano George H. W. Bush – il presidente Reagan ha parlato davanti al parlamento britannico e ha annunciato un nuovo impegno degli Stati Uniti ad agire in nome della democrazia in tutto il mondo”. Ora nessuno è in grado di definirsi neppure in rapporto ai nemici. Non che manchino le dittature e le minacce all’Europa e all’occidente democratico, ma ognuno ha posizioni diverse sulla Russia di Putin o sulla Cina di Xi Jinping, generalmente in base a convenienze di brevissimo termine. E così, se non sono possibili incontri internazionali per guardare al futuro, come avvenne nel 1983, ora i leader della destra moderata possono incontrarsi solo per i saluti di commiato e rievocare il passato.


Con l’uscita di scena di Angela Merkel quest’area politica che ha fondato l’Europa va incontro a un grande vuoto politico e di prospettiva. Può essere l’occasione per una rigenerazione culturale, per proporre un nuovo “dominio della mente e dello spirito”, come diceva la Lady di ferro, che fornisca nuove risposte alle sfide attuali preservando le conquiste che la destra liberaldemocratica ha realizzato in Europa. Se invece i partiti moderati europei dovessero scivolare per inerzia, come sta avvenendo in Italia, verso la destra sovranista e populista polarizzando ulteriormente lo scontro politico, sarebbe un problema serio per la qualità delle nostre democrazie. Anche se la nuova destra a trazione sovranista dovesse perdere.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali