Nei '90 Prodi e D’Alema facevano a gara lungo la Terza Via per fare “l’Ulivo mondiale” o “il riformismo nel XXI secolo” con Clinton e Blair

Prodi contro Prodi: accusa i “35 anni di liberismo”, cioè la storia della sinistra riformista

Indipendenza della Banca centrale, disciplina fiscale, più privatizzazioni della Thatcher, liberalizzazioni, riforme del lavoro e delle pensioni. Non c’è stato in Italia un liberismo ulteriore rispetto all’europeismo dell’Ulivo: sono Maastricht e l’euro la nuova costituzione economica italiana

Strana vita, la sua. Rendersi conto solo ora di aver partecipato attivamente, nei quattro anni da presidente del Consiglio intramezzati da cinque anni da presidente della Commissione europea, a una stagione di sistematica distruzione dello stato sociale. O forse no. Perché non si capisce bene se ci sia piena consapevolezza del proprio ruolo  nell’ultimo quarantennio. Parliamo di Romano Prodi che, commentando il suo libro autobiografico fresco di pubblicazione dal titolo “Strana vita, la mia”, intervistato da Massimo Franco del Corriere della sera, ha dato una risposta che sintetizza la sua visione del passato e del futuro del centrosinistra: “Nella costruzione dell’Ulivo una strategia c’è stata. A quel gesto non sono stato spinto. L’ho compiuto perché volevo interpretare un’esigenza diffusa che coglievo nel paese. E quell’esigenza rimane, anche se non si può declinare più come Ulivo. Il riformismo deve trovare un’identità nuova dopo 35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali”. 

  
Ci sono due modi di intendere questa risposta, in particolare il passaggio sulla nuova identità riformista dopo 35 anni di liberismo devastatore. Il primo è che sia una frase di circostanza, senza un preciso significato. Siccome da un po’ di tempo prendersela con il liberismo (semplice o nelle sue versioni neo-, selvaggio e sfrenato) è una pratica talmente diffusa da averla trasformata in un intercalare nel discorso pubblico, è ben probabile che questa invettiva sia finita in una risposta di Prodi come capita nei dialoghi di chiunque, nei talk show o davanti a un aperitivo. Se invece si assume che Prodi intenda dire realmente ciò che afferma, la questione si fa più complicata. 

 

Se il Regno Unito ha avuto Margaret Thatcher e gli Stati Uniti Ronald Reagan, l’Italia ha avuto Andreatta, Ciampi, Amato, Prodi e D’Alema

   
Perché da quell’affermazione sui “35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali” discendono varie implicazioni che riguardano la storia e l’identità del centrosinistra italiano. Ci sarebbe da discutere sul fatto che l’Italia sia davvero un paese “liberista”, ma se si prende per buono il punto di vista di Prodi sugli ultimi 35 anni del paese, allora non si può non notare che lui ne è stato uno dei principali artefici. E non solo lui personalmente, ma tutti i padri nobili del centrosinistra italiano. Se il Regno Unito ha avuto Margaret Thatcher e gli Stati Uniti Ronald Reagan, l’Italia ha avuto Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Prodi e Massimo D’Alema. “La sinistra è la forza più adatta a gestire quella rivoluzione liberale che il paese non ha mai avuto – dichiarò nel 1999 Giuliano Amato, appena nominato ministro del Tesoro del nascente governo D’Alema –. In paesi come l’Inghilterra il buon Dio fa nascere le signore Margherite... L’Italia affida alla sinistra sia il compito di liberare società ed economia, sia quello di non creare disuguaglianze”.

   

Quella di “neoliberismo” è una definizione sfuggente, ma si può dire che i suoi principali pilastri a livello di policy sono: indipendenza della banca centrale, bassa inflazione, disciplina fiscale (riduzione del disavanzo, e quindi del debito pubblico), maggiore spazio alla concorrenza (liberalizzazioni), ridimensionamento dell’intervento pubblico (privatizzazioni), apertura al commercio internazionale (riduzione dei dazi e globalizzazione). Se nei paesi in via di sviluppo, e in particolare dell’America Latina, era il Fmi a suggerire questo insieme di politiche che andavano sotto il nome di “Washington consensus” – per quanto l’economista che ha coniato l’espressione, John Williamson, recentemente scomparso, non si ritenesse affatto un “liberista” – dalle nostre parti questo insieme di riforme sono alla base dell’Unione europea. Se in Italia c’è stata una svolta “liberista” questa è essenzialmente coincisa con l’integrazione europea, dall’ingresso nello Sme al trattato di Maastricht fino alla nascita dell’euro. Il nostro paese non ha fatto nulla di più, anzi qualcosa di meno, del minimo sindacale chiesto dall’Europa nel suo lungo processo di integrazione economico-istituzionale. E la transizione economica italiana dal modello insostenibile degli anni Settanta, che sanciscono la fine del consenso keynesiano dominante nel Dopoguerra, all’ingresso nell’euro, espressione del nuovo assetto “liberista”, è stata scandita e perseguita dalla classe dirigente del centrosinistra. Silvio Berlusconi, che secondo la vulgata incarna la presunta svolta neoliberista imposta in Italia, non ha toccato palla fino al 2001, quando ormai tutto era stato fatto.

  

La “svolta liberista” è stata scandita e perseguita dal centrosinistra. Berlusconi non ha toccato palla fino al 2001, quando ormai tutto era fatto

  

La prima tappa della transizione liberista è senz’altro il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui peraltro quest’anno ricorre il poco ricordato quarantennale, che sancisce la nascita di una nuova costituzione monetaria che porta la banca centrale verso una sempre maggiore indipendenza dal governo sul modello indicato da economisti liberali, già negli anni Sessanta da Milton Friedman e poi da Robert Lucas e Thomas Sargent. Ebbene, quella importante riforma strutturale, che puntava ad abbattere l’inflazione che superava il 20 per cento e condurre il governo a maggiore disciplina di bilancio, fu opera di due grandi personaggi come Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, entrambi poi  ministri con Prodi negli anni Novanta. E non fu una riforma che gli allora ministro del Tesoro e governatore della Banca d’Italia subirono. Fu, nelle parole di Andreatta, una “congiura aperta” osteggiata da gran parte delle forze politiche ed economiche ma perseguita perché indispensabile per stabilizzare l’economia italiana (come ha detto recentemente Mario Draghi ricordando l’economista, Andreatta ha insegnato “a prendere decisioni necessarie, anche quando erano  impopolari: le cose vanno fatte perché si devono fare”).

 

Sulla disciplina di bilancio è inutile ricordare che dopo il mancato riequilibrio degli anni Ottanta, durante i quali è esploso il debito pubblico per la mancata compensazione dell’eliminazione della tassa d’inflazione con altre imposte o con il controllo della spesa pubblica, l’Italia è entrata negli anni Novanta sull’orlo del default economico, politico e istituzionale. Crisi valutaria, debito fuori controllo, corruzione diffusa, crollo dei partiti, stragi di mafia. Chi ha riequilibrato la finanza pubblica in un momento drammatico, durante una crisi di sistema, sono stati i governi Amato e Ciampi del 1992-93:  manovre correttive per contenere  deficit e  debito pubblico fuori controllo, privatizzazioni, fine del ministero delle Partecipazioni statali, chiusura della Cassa del Mezzogiorno,  accordi sulla politica dei redditi imposti ai sindacati (Trentin si dimette dalla Cgil dopo la firma) che archiviano definitivamente la scala mobile e l’insostenibile sistema messo in piedi da Lama e Agnelli nel 1975. E  tante privatizzazioni. 

 

Negli anni Novanta l’Italia avvia, nelle parole dell’ex direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi, “un piano di dismissioni imponenti, più esteso di quello promosso dai governi Thatcher nel Regno Unito”, per un valore complessivo di oltre 110 miliardi di dollari dal 1992 al 2001. Lo smantellamento dello stato padrone ha avuto come grande protagonista proprio Prodi, prima da presidente dell’Iri e poi da premier. Amato e Ciampi avviano la progressiva dismissione dell’Iri e di tutte le sue partecipazioni, dai surgelati alle acciaierie fino alle autostrade, viene soppresso il ministero delle Partecipazioni statali, vengono cedute le banche pressoché interamente in mano allo stato e liberalizzato il sistema finanziario. Le privatizzazioni investono tutti i settori produttivi: alimentare, siderurgico, bancario, assicurativo, telecomunicazioni, trasporti, infrastrutture. La spinta viene sicuramente impressa dalla realtà: la situazione di finanza pubblica era talmente terribile che non si poteva fare altrimenti. Ma l’obiettivo non era solo fare cassa per contenere il deficit e mettere sotto controllo il debito pubblico, le privatizzazioni avevano lo scopo di modernizzare l’economia sviluppando un mercato dei capitali in un paese che aveva una Borsa asfittica, diffondere l’azionariato tra i risparmiatori abituati ai depositi e ai titoli di stato, introdurre elementi di efficienza e concorrenza nel mercato.

     
Ma alla base della destatalizzazione dell’economia c’erano anche convinzioni etiche, prima che economiche, profonde. Andreatta, maestro collega e amico di Prodi, già dagli anni Sessanta andava predicando una separazione netta tra politica ed economia, necessaria come quella tra stato e chiesa, perché la spesa pubblica incontrollata e la commistione tra politica e industria di stato erano i canali  della corruzione economica e morale: privatizzare e liberalizzare avevano per l’economista democristiano anche una funzione etica. “La Thatcher privatizzò per fare cassa – ha ricordato recentemente Giuliano Amato in un’intervista a Repubblica – noi lo facemmo perché era l’unica soluzione per liberarci da metastasi altrimenti dilaganti”. 

 

     

Le privatizzazioni seguono inoltre di pari passo il percorso di integrazione europea e avvicinamento alla moneta unica, la stella polare dell’azione politica del centrosinistra. E’ dall’Europa che arriva l’impulso determinante alle dismissioni. Non solo perché l’Italia doveva mettere a posto i conti per rientrare nei parametri di finanza pubblica fissati a Maastricht (rientro sotto il 3 per cento di deficit e sotto il 60 per cento di debito pubblico), ma anche perché si stringevano le maglie contro gli aiuti di stato. Basti pensare all’accordo Andreatta-Van Miert, rispettivamente ministro degli Esteri e Commissario europeo alla concorrenza, che impegnava l’Italia a gestire le imprese statali secondo criteri di mercato. Lo stato non poteva più sussidiare imprese che non erano in grado di stare in piedi e fu quindi costretto a venderle. Si ottenevano così tre risultati: contenimento della spesa corrente, riduzione del debito pubblico attraverso i proventi delle cessioni e apertura del mercato alla concorrenza per modernizzare il sistema produttivo. Inoltre, questo processo era indispensabile per vincere la corsa contro il tempo per non restare fuori dall’euro.

 

Le privatizzazioni non furono imposte al centrosinistra, anzi. Pier Luigi Bersani, promotore delle liberalizzazioni (altro pilastro della “rivoluzione liberista”), da ministro dell’Industria del governo Prodi voleva andare oltre e cedere integralmente sia l’Eni sia l’Enel, che sono ancora sotto il controllo del Mef. E Vincenzo Visco, esponente della sinistra post-comunista, alla chiusura della sua legislatura da ministro delle Finanze e del Tesoro,  pubblicava nel 2001 un “Libro bianco sulle privatizzazioni” in cui celebrava gli eccezionali risultati ottenuti: “Tutti gli obiettivi di dismissioni sono stati raggiunti e superati. La legislatura si conclude con la pressoché totale fuoruscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare”, scriveva Visco.  E infine: “La presenza dello Stato nell’economia italiana resta ancora significativa, ma molto è stato fatto: il processo di privatizzazione ha interagito in un circolo virtuoso con l’accrescimento delle dimensioni del mercato dei capitali, con la promulgazione di nuove leggi sulla finanza, con il risanamento dei conti pubblici, con il rilancio delle imprese in corso di privatizzazione, con il ritirarsi dello ‘Stato imprenditore’”.

 

Il centrosinistra è intervenuto anche sui “diritti sociali” (quelli che secondo Prodi sono stati devastati), prima con la riforma Dini delle pensioni e poi introducendo flessibilità nel mercato del lavoro con il pacchetto Treu: è emblematico, sul tema, il discorso di D’Alema al congresso del Pds del 1997 in cui il riconfermato segretario attaccò il leader della Cgil Sergio Cofferati per il suo conservatorismo rispetto al mondo del lavoro che cambia. Erano i tempi in cui Prodi e D’Alema facevano a gara correndo lungo la Terza Via per fare “l’Ulivo mondiale” o “Il riformismo nel XXI secolo” con Bill Clinton e Tony Blair. “Occorre guardare a paesi quali gli Stati Uniti, che sono riusciti nell’intento che sembra sfuggire a gran parte dei governi dell’Europa continentale; occorre perseguire le riforme strutturali del mercato del lavoro che possano trasformare la ripresa della crescita del prodotto in nuovi posti di lavoro”, c’è scritto nel Documento di programmazione economico-finanziaria 1998-2000 redatto da Prodi, Ciampi e Visco.

 

Questo ruolo storico della sinistra è stato rivendicato e sintetizzato da  D’Alema una decina d’anni fa: “I governi di centrosinistra hanno più riforme e privatizzazioni di quante se ne siano mai state fatte – disse durante un confronto televisivo con Angelino Alfano–. Il paradosso italiano è che è stato il centrosinistra smantellare l’Iri, non la destra. Privatizzazioni liberalizzazioni, riforma delle pensioni. Noi abbiamo portato la lira nelleuro. Noi abbiamo compresso la spesa pubblica. Il debito pubblico quando andò il governo Ciampi era oltre il 120 per cento del pil, alla fine del decennio è sceso al 109. La spesa pubblica alla fine degli anni Novanta era il 46 per cento del pil, dopo i governi del centrodestra è arrivata al 53”. 

  

Non sappiamo se tutto questo sia “liberismo” né se abbia “devastato i diritti sociali”, ma se così è stato è soprattutto opera di Prodi e della classe dirigente del centrosinistra. E in particolare della loro adesione al processo di integrazione europea, che non è stato passivamente subìto ma convintamente perseguito. Perché non c’è stato in Italia liberismo ulteriore rispetto all’europeismo: sono Maastricht, l’euro e i Trattati europei a definire la  nuova costituzione economica italiana. Nel celebre, e per certi versi mitologico, incontro del 1992 sul Britannia l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi descriveva così la strategia del governo  agli investitori internazionali: “Consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada”. Una strada non solo obbligata, ma anche desiderata. 

  
A giudizio di un osservatore “liberista” si è trattato di una transizione necessaria e positiva, seppure timida e incompleta. Se invece per Prodi questi ultimi quarant’anni hanno devastato l’Italia, non dovrebbe scagliarsi contro dei liberisti immaginari ma rivedere criticamente la sua storia, i suoi ideali e la sua eredità politica.

 

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