Euporn - il lato sexy dell'europa

Può la destra europea sopravvivere ai suoi ex?

Paola Peduzzi e Micol Flammini

L’ex Angela Merkel, l’ex Sebastian Kurz e i colori che cambiano nella mappa politica dell’Ue. Qualche nome (e idea) per il futuro 

Angela Merkel oggi parteciperà al suo centosettesimo e ultimo Consiglio europeo, e lascia dietro di sé un’eredità unica. “Ancora di stabilità”, “regina d’Europa”, “Mutti”: gli appellativi si sprecano anche a Bruxelles. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha deciso di organizzare un evento apposito durante la riunione dei capi di stato e di governo (ci sarà una foto di gruppo speciale, oltre a regali, fiori e qualche bicchiere di vino). E’ un onore riservato soltanto ai leader che hanno lasciato una traccia profonda nella costruzione comunitaria. Ma l’eredità della Merkel non è soltanto positiva. Lo dimostra lo stesso ordine del giorno del suo ultimo vertice, durante il quale saranno (nuovamente) discussi alcuni dei temi su cui la cancelliera ha avuto un effetto negativo per l’Ue. Il principale è lo stato di diritto. Come cancelliera, Merkel ha tollerato la deriva antidemocratica del PiS al governo in Polonia. Venerdì scorso ha ribadito le sue perplessità sulla linea dura che viene chiesta da alcuni contro Varsavia. Meglio “discussioni” e “compromessi”, ha spiegato la Merkel: meglio non finire davanti a un tribunale. Come leader di fatto del Ppe, Merkel ha tollerato anche la deriva illiberale di Viktor Orbán e del suo Fidesz. La sua Cdu fino all’ultimo si è opposta all’espulsione, fino a quando Orbán non ha deciso di andarsene da solo perché c’era una maggioranza nel Ppe per cacciarlo. La Merkel ha sempre sostenuto che Orbán fa un passo indietro prima del precipizio: meglio negoziare con il premier ungherese che andare allo scontro. Che sia per ragioni storiche (il nazionalismo anticomunista di alcuni paesi dell’est) o economiche (gli interessi delle imprese tedesche in Polonia e Ungheria), il calcolo della Merkel si è rivelato sbagliato. Toccherà al prossimo cancelliere decidere come curare la ferita del rispetto dello stato di diritto. Anche su altri due temi all’ordine del giorno del Consiglio europeo – energia e commercio – pesa l’eredità della Merkel. Sull’energia la cancelliera è riuscita a pilotare la politica europea, compreso il Green deal che è una fotocopia delle politiche condotte in Germania. L’aumento dei prezzi spaventa o terrorizza altri governi. Lei è rimasta impassibile, così come la Commissione europea presieduta dalla sua ex ministra, Ursula von der Leyen, che finge di non vedere i rischi di una reazione popolare contro il Green deal. Sul commercio il Consiglio europeo avrà un dibattito strategico (qualsiasi cosa voglia dire), dietro cui si nasconde il tema Cina. Che fare con l’accordo sugli investimenti che Merkel ha spinto von der Leyen a concludere nel dicembre del 2020? Anche su questo la risposta la darà il prossimo cancelliere. Chi non ci sarà alla festa di addio per Merkel è Sebastian Kurz. L’ex cancelliere austriaco è stato costretto a dimettersi dopo essere finito in un’inchiesta di corruzione. Al suo posto ci sarà un diplomatico, diventato suo alleato in politica, Alexander Schallenberg. Kurz spera che la sua sia soltanto un’uscita temporanea dal Consiglio europeo, come accaduto con la caduta del suo primo governo. Lui ancora aspirava e aspira a essere la nuova Merkel, ma con una visione molto diversa del Ppe e dell’Ue.  Kurz, un po’ vanitoso e un po’ capriccioso, troppo spesso nazionalista, di certo non è l’erede della cancelliera. Quel che è sicuro  è che senza Merkel e senza Kurz, la grande famiglia conservatrice del Ppe sembra irriconoscibile: ha perso influenza nei grandi paesi dell’Ue, manca un leader nuovo, è forte quasi soltanto a est, e la successione della Merkel, proprio come a Berlino, è poco riuscita.

 


Kurz, dopo la Merkel,  sperava di diventare il nuovo leader di fatto del Ppe. L’idea piaceva soprattutto a Manfred Weber


 

Il peso di Kurz. Il bambino prodigio della politica austriaca è uno che sa sempre come contare, pur non contando molto. Lo sa a Vienna e anche a Bruxelles. A Bruxelles è stato spesso preso a esempio   come la via da seguire per guarire il Ppe dalla sua crisi esistenziale. Il suo precedente governo con l’estrema destra dell’Fpö e la sua capacità di addomesticarla fino a farla quasi scomparire è ancora guardato con una certa dose di sospiri, soprattutto da parte di  Manfred Weber, veterano del partito, aspirante presidente della Commissione che si è dovuto accontentare della carica di presidente del gruppo parlamentare del Ppe, e pure con molti nasi storti. Weber  aveva proposto di sperimentare qualcosa di simile anche a livello europeo per creare un “Partito popolare moderno”. Dopo aver governato con l’Fpö, Kurz iniziò una nuova avventura con i Verdi: una rivoluzione. I Verdi ora gli hanno fatto capire che non potevano tollerare oltre i suoi scandali e lui ha compreso che era necessario un passo indietro per non far cadere il governo. Kurz però non è ancora caduto, sta ben saldo nelle retrovie, è ancora il leader dell’Övp e intanto si riorganizza mentre aspetta che le accuse contro di lui sfumino un po’.  L’ormai ex cancelliere austriaco fa parte di quella generazione di giovani spregiudicati che credono che il futuro dei conservatori sia da cercare più a destra ancora. Kurz si è così lanciato all’inseguimento di un orbanismo più presentabile. Diversi analisti dicono che non c’è nulla di strano, alla base di questa tentazione c’è un fatto che spesso tendiamo a ignorare e che invece dimostra la coerenza delle scelte del leader dei popolari. L’Austria ama presentarsi come una Germania piccina, ma in realtà è più simile alle nazioni dell’Europa centro-orientale. O addirittura, c’è chi dice a uno stato balcanico. Sia per struttura sia per idee. Kurz si era accorto del corteggiamento di una parte del Ppe e aspirava a prendere il posto della cancelliera come leader.  Ma cade sempre un momento prima del raggiungimento dei suoi scopi, è un Sisifo della politica. Chi si è un po’ rallegrato per i suoi guai è stato  Donald Tusk, che mal sopportava l’idea che il partito potesse seguire le orme del bambino prodigio, ormai adulto problematico. Tra i due il rapporto è glaciale. Tusk non sopportava il fatto che Kurz proteggesse Orbán. Kurz non sopportava l’alacrità con cui Tusk cercava di impedire la svolta a destra del Ppe.


Il peso del sud. Nella nuova geografia del Ppe, il nuovo sembra arrivare dal sud, cosa che costituirebbe un gran cambiamento in una famiglia che ha vissuto del traino del centro-nord europeo. In Spagna Casado è all’opposizione e molti fanno fatica a decifrarlo: è considerato uno spostato a destra, ha fatto degli accordi locali con gli estremissimi di Vox, ma ha anche contribuito in alcuni casi a contenere le manie di espansionismo della destra estrema (modello Kurz). Casado è uno dei nuovi volti della destra europea, ha quarant’anni e tanta voglia di diventare il nuovo Aznar, un leader senza complessi con l’estrema destra né con il passato, pragmatico quando necessario ma deciso a denunciare “il governo più a sinistra d’Europa”, quello di Pedro Sánchez, come ha fatto salutando proprio la Merkel a inizio settembre a Berlino, ma anche di tracciare una linea tra “il liberalismo riformista e il populismo antiliberale”, che esclude quindi una perenne e spesso vana rincorsa verso destra. Ma che Casado possa essere una garanzia, in termini di nuovo posizionamento del Ppe, o addirittura l’uomo nuovo che la famiglia conservatrice europea sta cercando non lo credono in tanti. Ma sempre a sud è da cercare l’altro uomo nuovo, quello a cui credono un po’ di più: Kyriakos Mitsotakis. Il primo ministro greco è più introdotto negli ambienti bruxellesi rispetto a Casado e la sua esperienza di governo, finora di successo, lo rende anche più affidabile agli occhi dei suoi colleghi. Politicamente è stabile, il suo governo non ha scossoni e dovrebbe arrivare in sicurezza fino al 2023 e soprattutto Mitsotakis ha un curriculum invidiabile, parla tedesco, è cresciuto in ambienti internazionali e ha una laurea a Harvard. E’ un premier in carica, cosa ormai rara da trovare nel Ppe, e soprattutto è molto bravo a tessere relazioni con gli altri leader non conservatori. Ha un rapporto strettissimo con Pedro Sánchez ed Emmanuel Macron e va molto d’accordo con Mario Draghi. 

 


La stranezza è che gli uomini nuovi si cercano a sud. Lo spagnolo Casado è poco credibile, piace di più il greco Mitsotakis



      

Il dopo Tusk. Oltre a essere rimasto senza guida morale, il partito è ormai  privo anche di una leadership effettiva dopo le dimissioni di Donald Tusk dalla presidenza del Ppe. L’ex premier polacco  era stato scelto  per il suo carattere battagliero, in  rappresentanza di una delle delegazioni più numerose – i polacchi del PO – e perché è uno di quei personaggi che sanno farsi ascoltare a Bruxelles. Tusk però se ne è andato presto, è rimasto al suo posto per un anno e mezzo, giusto il tempo di gestire l’uscita di  Fidesz dal Ppe e poi ha deciso di tornare alla politica polacca. La mancanza di un leader, ci hanno raccontato dal partito, si sente, ma l’errore più grande sarebbe fare la scelta più scontata: dare a Manfred Weber il ruolo di presidente del Partito popolare europeo. Weber ha anche rinunciato alla corsa per la leadership del Parlamento europeo dicendo che non gli interessava più, che ormai guardava al suo partito. Questa settimana è stato riconfermato presidente del gruppo del Ppe, ma dentro al partito in tanti chiedono una svolta: il Ppe si sente orfano, mentre il mondo cambia, la Germania pure, forse è il momento di trovare nuova vivacità e carattere. C’è un nome che non dispiace, ma che per il momento gioca tutta un’altra partita, anche lui, come Tusk, una partita nazionale. E’ Michel Barnier, l’ex caponegoziatore della Brexit che si è gettato nel pollaio dei Républicains in Francia e ha mire presidenziali. Le speranze che ce la faccia contro Macron non sono molte, appare molto confuso, parla come un brexiteer, ha l’aria di sentirsi scomodo nella politica francese, chissà non voglia tornare a Bruxelles. L’altro nome è quello di Antonio López-Istúriz White, del Pp spagnolo, attuale segretario del Ppe, un partito del quale custodisce i segreti dal 2002.
 
Sullo sfondo: il Parlamento europeo. Tra le tante, piccole battaglie tra famiglie politiche europee, c’è anche quella a Strasburgo. Il 17 gennaio del prossimo anno, gli eurodeputati dovranno scegliere il loro presidente per i prossimi due anni e mezzo di legislatura. David Sassoli, che attualmente guida il Parlamento europeo, avrebbe dovuto, secondo un patto del 2019, lasciare il posto a Manfred Weber, che guida il gruppo dei popolari, ma Weber ha detto che non vuole questo incarico quindi i socialisti-democratici dicono che il patto è nullo e che Sassoli deve rimanere. I popolari europei non sono naturalmente d’accordo, non lo erano prima e non lo sono ancor più ora che si sentono più deboli, e quindi ogni tanto saltano fuori dei nomi che, si dice, potrebbero formalizzare la propria candidatura entro il 24 novembre. C’è la maltese Roberta Metsola, 42 anni, un marito finlandese e quattro figli, “tipico prodotto della bolla bruxellese”, ha scritto Politico Europe, definendola una “candidata del consenso”, perché è esperta, è giovane, è donna: ha solo il difetto di essere di Malta, mentre molti nel Ppe vorrebbero un rappresentante di un paese con un peso specifico superiore. Come i Paesi bassi, per esempio, e la sua eurodeputata più influente tra i popolari, cioè Esther de Lange, ragazza madre che si è battuta per ottenere il congedo parentale per i parlamentari europei, oltre che essere una delle persone più in vista (e questo non è detto che sia un punto di forza) sulle questioni climatiche e il Green deal. Ci sono poi i maschi. In particolare lo spagnolo Gonzáles Pons, che è il numero due di Weber, ed è famoso a Strasburgo perché è un gran oratore. Ha però due problemi non piccoli: pare che non si voglia candidare, tanto per cominciare, e soprattutto pare che non sia sostenuto dal leader del Partito popolare spagnolo, Pablo Casado, perché Pons è molto più moderato di lui.

Nel Ppe, come al Parlamento, la battaglia per le nuove cariche è sempre di più fatta di valori e la crisi esistenziale dei popolari forse non è tanto dettata dai leader che se ne vanno, quanto dall’aver cresciuto nelle proprie schiere un problema come Orbán, di aver protetto le sue spinte illiberali, di aver fatto finta di nulla. Non accorgendosi che così il Ppe stava tradendo i propri valori, ha finito per perdersi. Forse per non smarrirsi più dovrebbero tutti tenere a mente una vecchia battuta polacca che abbiamo sentito raccontare da Tusk: sapete quale differenza c’è tra una democrazia e una democrazia illiberale? La stessa che c’è tra una sedia e una sedia elettrica. 

(ha collaborato David Carretta)