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"Forzati alla vita di prima"

Ripartenza a chi

Saverio Raimondo

Ci sono quelli che non vogliono più fare tardi la sera, quelli che non sanno più come salutarsi. La normalità di uno starnuto a tavola

Li vedi già alle 22, irrequieti, con i sorrisi tirati, la fronte imperlata, un colorito cereo e un leggero tremore, che cominciano ad agitarsi sulla sedia, ad accavallare e scavallare le gambe, a fare smorfie per occultare uno sbadiglio, a sbirciare l’orologio con sguardo sempre più inquieto, e a guardarsi attorno un po’ smarriti in cerca di un aiuto provvidenziale che nemmeno loro sanno bene cosa dovrebbe essere né da chi dovrebbe arrivare, forse un incendio o una scossa di terremoto che costringa tutti alla fuga, all’allontanamento immediato senza tanti convenevoli. Alle 23 fermentano e diventano ufficialmente nervosi, anzi nervosissimi, fasci di nervi avvolti in abiti stazzonati e madidi di sudore freddo che si dimenano sul posto come in preda alle convulsioni, e per i quali ogni scusa è buona per alzarsi e possibilmente andarsene di corsa – l’ideale sarebbe un blackout, le cui tenebre favorirebbero una rapida uscita di scena salvo incespicamenti. E a mezzanotte, ammesso che non siano già riusciti prima a trovare una via di fuga, una scusa valida, o non abbiano compiuto una carneficina, esausti come mai prima nella loro vita, stravolti dal sonno e dallo straniamento, si alzano malfermi e barcollando vanno via senza nemmeno salutare, trascinandosi catatonici fino al proprio letto dove si risveglieranno il mattino dopo ricordando poco o nulla della sera prima, esattamente come la mente è abituata a comportarsi quando si tratta di un trauma.

 

Sono i “forzati alla vita di prima”, quelli che in questi giorni per educazione o riflesso condizionato hanno accettato un invito a cena, ora che si può mangiare senza limiti d’orario, al chiuso o all’aperto, in un numero di partecipanti che alla fine nessuno ha capito, tanto siamo tutti bianchi -colore del privilegio sia razziale che pandemico- e più o meno vaccinati. Ma dopo un anno e mezzo di sedentarietà, restrizioni varie e tutti a letto alle dieci, questi “forzati” non riescono a riconvertirsi: hanno perso il ritmo, gli si è ammosciato lo spirito, atrofizzata la fantasia. Magari gli è anche già arrivato il green pass, ma non sanno dove andarci: le vacanze le fanno di prossimità, l’aereo è pieno di gente, il treno è rincarato. Ora che all’aperto si può anche stare senza mascherina magari si fanno coraggio ed escono a volto scoperto, un po’ timidi e impacciati, stringendo la chirurgica fra le dita come una mascherina di Linus; ma tempo pochi metri, girano l’angolo ed ecco che si ricoprono naso e bocca, un po’ tristi un po’ sollevati, ché tutta quell’aria nelle narici gli faceva girare la testa. Come biasimarli: chi più chi meno, siamo tutti un po’ smarriti da questo ritorno alla normalità. Durerà? Non vogliamo più affezionarci alla vita normale (il caffè al bancone, una birra con gli amici, dormire meno di otto ore a notte...), perché se anche stavolta qualcosa dovesse andare storto e dovessimo tornare indietro ci staremmo troppo male. 

 

Abbiamo paura di soffrire in autunno; per questo stiamo vivendo l’estate con questo passo malinconico e incerto, il sorriso amaro, un’ombra d’inquietudine sul volto. 

 

Il disorientamento maggiore è quando, arrivati a un appuntamento, ci si saluta: in merito vige ormai la più totale anarchia. C’è chi tende una mano ma chiusa a pugno (che più che un gesto pacifico sembra una minaccia, e infatti quando poi vai a fare cin-cin con le nocche ti fai un male cane), chi porge il gomito, chi fa un inchino, chi l’occhiolino, chi si gira dall’altra parte e fa finta di non averti visto... E a te, reazionario con la mano tesa pronta a stringerne un’altra, viene anche un po’ da piangere. Altro che torre di Babele: come può la nostra civiltà non tanto ripartire, ma anche solo dirsi tale, se non sappiamo più nemmeno come salutarci? In effetti, dopo la pandemia e i suoi annessi e connessi ci vorrebbe una fisioterapia per recuperare il tono sociale, una ginnastica riabilitativa alla vita normale. Mica si può tornare a respirare così, a pieni polmoni, in faccia alla gente: “Respiri piano senza far rumore” cantava Vasco Rossi nel 1979, mentre oggi potrebbe dirlo un qualsiasi virologo come precauzione alla variante Delta. E anche tornare a sorridere non solo con gli occhi – ora che le labbra sono scoperte, mai screpolate durante tutto l’inverno grazie alle protezioni – non è un’impresa da sottovalutare: quando sorridiamo contraiamo ben dodici muscoli facciali, che in un anno e mezzo di sedentaria, triste e solitaria pandemia abbiamo usato ben poco, lasciando che si inflaccidissero.

 

Bisogna sorridere un poco alla volta, esercitare piano piano le labbra a stirarsi (non vale aiutarsi con le dita agli angoli della bocca) e a scoprire un po’ i denti (non troppo, mi raccomando, non siete animali da ringhio), rassodare gli zigomi, fare stretching alle rughe d’espressione; altrimenti se uno sorride così, a freddo, dopo mesi e mesi di broncio, rischia lo strappo muscolare in piena faccia. Anche restare svegli per tornare a vivere la notte (o per lo meno la mezzanotte) necessita di allenamento graduale, dell’adeguato riscaldamento, di rimettere in circolo un po’ di acido lattico: bisogna attaccare dei pesi alle ciglia per esercitarsi a tenere la palpebre sollevate anche sotto sforzo (magari all’inizio cominciate con un  peso di quindici chili, non pretendiate subito di sollevarne cinquanta con un battito di ciglia), e poi bisogna darsi schiaffetti alla faccia per tenersi svegli rassodando i tessuti e riattivando la circolazione – mi raccomando però: le mani devono stare ferme, è la testa che deve girare, la torsione del collo è importante perché può favorire la formazione della cervicale che aumenta a sua volta le probabilità di restare svegli. Bisogna allenarsi per tornare a stringere qualche mano: le nostre braccia sono rattrappite, è un anno e mezzo che usiamo il gomito per fare qualunque cosa (salutare, aprire una porta o una bottiglia, premere un pulsante, masturbarci...); dobbiamo fare piegamenti delle braccia, stendere la muscolatura, tonificare le dita della mano aprendo e chiudendo il pugno con l’ausilio di pallette elastiche – la stretta di mano dopo un anno e mezzo deve essere vigorosa, non della stessa consistenza del gel disinfettante per le mani. 

 

Bisogna allenarsi a (ri)prendere il treno o l’aereo, disciplina tipo il triatlon che prevede corsa (per non perdere il convoglio o il volo in partenza), salto in lungo (per salire in carrozza o arrivare in tempo all’imbarco prima che le porte ti si chiudano in faccia) e sollevamento pesi (il trolley da issare sopra la cappelliera, oltre al proprio peso corporeo da tirare su una volta arrivati). Ma soprattutto, complice l’estate, dobbiamo allenarci per tornare a flirtare – anzi, altro che flirt: pure qualcosina in più! Sono stati mesi cupi anche perché casti; ora è giunto il momento di riattivarsi persino da questo punto di vista. Bisogna recuperare l’elasticità della lingua, la coordinazione delle dita, tonificare tutta la zona pelvica. Esercitatevi a slacciare reggiseni, a sfilarvi le mutande dalla testa. Bisognerà capire cosa tenere e cosa buttare dei numerosi consigli dei sessuologi su come fare sesso protetto (dal Covid) diffusi in questi mesi: per esempio se facevamo sesso con uno sconosciuto eravamo tutti caldamente invitati a tenere indosso la mascherina. Forse adesso potremmo azzardarci a toglierla, ma solo se facciamo sesso all’aperto: è atto osceno in luogo pubblico (osceno in realtà solo se fatto bene), ma per lo meno non è contagioso. E già dicono che dovremo riabituarci ad andare in ufficio, a stare accanto a degli sconosciuti, a usare i gomiti solo nella lotta per il possesso del bracciolo al cinema o al teatro... a ballare in mezzo a un gruppo di altre persone, da vivere più come una minaccia per i nostri piedi che per il nostro sistema immunitario. 

 

La morale è che il mondo non cambia: giusto un po’ di maquillage, qualche lavoro di restauro alla facciata, ma in buona sostanza non riusciamo a immaginarci un’altra realtà, realmente diversa da quella di prima. Non era colpa degli idealisti che nel corso della Storia hanno cercato di cambiare il mondo se poi quest’ultimo non si lasciava non dico plasmare, ma nemmeno minimamente scalfire; è proprio la realtà a essere immutabile, impermeabile persino a una pandemia. La normalità non la fermi, la puoi limitare per un po’, ingabbiarla qualche tempo, contenerla finché dura; ma poi se non rompe gli argini s’infiltra comunque nelle crepe; e allaga tutto, come sempre.

 

L’altra sera a una cena c’era una persona che tossiva. Nessuno diceva niente: né il diretto interessato (gli sarebbe bastato esibire il green pass per poter continuare a nebulizzare droplet nell’aria senza creare il panico attorno a lui) né le altre persone invitate (comportamento sospetto, anzi ipocrita: in altri tempi qualcuno si sarebbe preoccupato, si sarebbe fatto avanti con un bicchiere d’acqua, avrebbe osato dire “che brutta tosse, perché non ti fai vedere”). Ogni colpo di tosse avveniva in un silenzio innaturale, un misto fra tensione e imbarazzo collettivo: l’istinto sviluppato negli ultimi mesi ci diceva di metterci a gridare, di cercare riparo dietro un plexiglas o di gettarci fuori dalla finestra aperta; ma l’educazione ci ha mantenuti tutti composti, gli sguardi distolti dall’oggetto del nostro sospetto, un sorriso di circostanza fissato in volto, il disagio celato dietro una finta posa disinvolta. 

 

A me in realtà è passato l’appetito, a  ogni colpo di tosse mi veniva solo voglia di alzarmi, uscire e andarmi e farmi un tampone; e ho capito che l’unico aspetto della vita normale che ancora non riusciamo a riconquistare, ben più delle discoteche, è proprio lo stare male. Quando potremo tornare a tossire in pubblico senza destare scandalo? Quando uno starnuto tornerà a essere solo uno starnuto? Dopo il diritto alla salute, qualcuno lotterà anche per il diritto a stare male – non dico tanto, almeno un po’ – senza per questo essere escluso dalla società o sentirsi un untore? Potremo dire di esserne usciti solo quando torneremo a selezionare la gente all’ingresso in base ai vestiti e non alla temperatura corporea.

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