Beppe Grillo (Ansa)

un destino inevitabile

Il silenzio degli urlatori

Francesco Cundari

Dal teatro alla politica. La triste agonia del movimento inventato da un comico. Grillo come Giannini, l’uomo qualunque

Si sa che quel che conta più di tutto, nel teatro come nella vita, in politica come in letteratura (e secondo alcuni persino negli articoli di giornale), è il finale. Proprio per questo lascia stupefatti la conclusione cui sembra essere arrivato il Movimento 5 stelle, singolarissima creatura partitico-teatrale del comico Beppe Grillo, opera somma della politica spettacolo in Italia: un improvviso, interminabile, imbarazzato silenzio. La negazione di tutte le leggi dello spettacolo. La negazione di tutte le leggi della politica. Ma una conclusione che era fors’anche inevitabile per un movimento composto da persone, Grillo a parte, fondamentalmente negate per entrambe le cose. 

 

Il movimento della trasparenza, che doveva trasformare la Repubblica in una casa di vetro, è chiuso da mesi in uno scontro interno di cui non si capisce niente, impegnato in una furiosa lite di condominio virtuale con Davide Casaleggio e l’associazione Rousseau da un lato, Grillo e non è ben chiaro chi dall’altro (Luigi Di Maio, per esempio, voi dove lo mettereste?). E con Giuseppe Conte, come sempre, nel mezzo, a fare l’unica cosa che gli sia sempre riuscita veramente bene: il pesce in barile. 

 

In un attimo, è come se l’intera compagnia fosse passata dalla casa del “Grande Fratello” alla casa di “Lol”, il fortunato programma di Amazon in cui un gruppo di comici viene rinchiuso in un appartamento, dove ciascuno è costretto a ripetere i propri cavalli di battaglia dinanzi al gelido silenzio di tutti gli altri, perché il primo che ride è eliminato. Ed è davvero notevole che oggi, quando Conte spiega che “la democrazia digitale presuppone assoluta trasparenza e chiarezza”, non scappi da ridere a nessuno. Per non parlare di quando, giovedì, ha spiegato a Enrico Letta, Goffredo Bettini ed Elly Schlein che “il sovranismo offre risposte del tutto inadeguate” (lo stesso Conte che poco più di due anni fa, parlando dal palco dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in qualità di capo del governo gialloverde, scandiva: “Quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo ricordare che sovranità e popolo sono richiamati nell’articolo uno della Costituzione italiana”).

 

Ma il meglio del suo repertorio, che basterebbe da solo a giustificare il titolo di Avvocato del popolo, Conte lo ha dato pochi istanti dopo, nella stessa allegra riunione su zoom promossa da Bettini, diffondendosi nella seguente, irresistibile spiegazione: “Ridurre il problema complesso della gestione dei flussi migratori allo slogan porti chiusi e porti aperti, ho sempre detto, rivela assoluta inadeguatezza di risposta, anche perché poi si scopre che queste formule sono sterili slogan: non è mai successo con il mio governo che un porto poi alla fine sia rimasto chiuso, perché alla fine sono sbarcati comunque, anche se con qualche giorno soverchio”. Testuale. Proprio così: mai successo. E davvero è difficile dire se si resti più incantati dalla logica stringente del ragionamento – allo stesso titolo l’anonima sequestri potrebbe rivendicare di non avere mai rapito nessuno, avendo poi sempre liberato tutti, dietro congruo riscatto, anche se “con qualche giorno soverchio” – o dall’eleganza della prosa. 

 

“Credo che il Movimento stia perdendo di vista un po’ la realtà”, ha dichiarato Alessandro Di Battista, con understatement tipicamente grillino. Lui che dal partito è uscito per ultimo, in polemica con la scelta di sostenere il governo Draghi, e che secondo i retroscena sarebbe pronto a guidare la riscossa dei casaleggesi alla guida di una nuova formazione, se non addirittura della vecchia, qualora riuscisse loro di vincere la battaglia sulla titolarità del marchio. E tuttavia è difficile trattenere un moto di scetticismo, ascoltando il Posaman dei Cinque stelle ripetere, ad aprile, che per lui comunque se ne riparla dopo l’estate (“Non lo so, io fino a fine settembre porto avanti le mie cose personali, sono anche battaglie politiche che ho scelto anche rinunciando a poltrone importanti. Il futuro vedremo. A fine settembre farò le mie valutazioni e deciderò”). Dove la nota rivelatrice, al di là dell’incerta giustificazione riguardo al fatto che si tratterebbe “anche” di battaglie politiche, è soprattutto lo scrupolo con cui puntualizza due volte: “Fine settembre”. Perché sia chiaro sin d’ora, non è che poi il cinque o il dieci del mese siamo già di nuovo tutti lì a telefonargli di prima mattina, a mettergli pressione, a chiedergli che voglia fare. Per Dibba se ne riparla a “fine settembre”. Come quegli studenti rimandati di una volta che non volevano rovinarsi le vacanze. E si capiva subito come sarebbe andata a finire. 

 

E così, anche da questo lato, tutte le domande e i problemi irrisolti rimangono senza risposta. Almeno fino a “fine settembre”. Che poi lo sappiamo come funzionano queste cose, con tutto il lavoro che si accumula, ottobre ti vola via in un attimo, e a quel punto è inutile insistere, se ne riparla “a feste fatte”. Cioè a gennaio. Fine gennaio, s’intende. Ma non è che dalle parti di Conte si sentano discorsi molto diversi. Anche lì, quando si tratta di capire quando dovrebbe partire il suo grande progetto – in qualunque cosa consista: un nuovo partito, un rilancio del vecchio, una scissione, una convenzione o una circonvenzione – il Corriere della sera scrive che molto probabilmente, vista l’aria che tira, se ne riparlerà “dopo l’estate”. Del resto bastava vedere il piglio con cui l’aspirante leader aveva affrontato subito la questione più spinosa, il divorzio da Casaleggio: “Io sono l’ultimo arrivato e non posso intervenire in un rapporto consolidato negli anni”.

 

E quindi, che si fa? Il limite dei due mandati, che significherebbe il pensionamento di gran parte della prima linea grillina, praticamente tutti i nomi più conosciuti, escluso il solo Dibba, resta fermo oppure no? E la piattaforma Rousseau, che doveva essere l’alfa e l’omega della nuova democrazia diretta? Nessuno risponde. È anche vero che non sono poi così tanti a importunarli con questo genere di domande, che comunque, la prima linea suddetta, fa finta di non capire (cosa che in verità le è sempre riuscita benissimo). L’aspetto più curioso è che stavolta, però, i Cinque stelle non sembrano trovare neanche qualcos’altro da dire, fosse solo per cambiare discorso. La loro lenta agonia è avvolta da un increscioso silenzio, interrotto solamente, di quando in quando, dalle sollecite premure del Partito democratico.

 

È come se la massima espressione della politica spettacolo avesse di colpo esaurito il copione. Grillo appare da tempo un comico che ha finito le battute (le ultime sparate sulla “transizione ecologica” e il “2050” stanno alle intemerate del Vaffa Day come l’Agorà di Bettini a quella Pericle). Casaleggio sembra solo un impresario arcigno e venale, intento a fare il conto delle bottigliette d’acqua consumate durante le prove, dell’affitto del teatro e della corrente da pagare per alimentare la piattaforma Rousseau e tutti gli altri costosi giocattoli prodotti dalla sua azienda. Tutto il resto dell’allegra brigata – Vito Crimi, Danilo Toninelli, Laura Castelli – somiglia a una compagnia in disarmo, clown tristi ai quali non riesce più nemmeno il numero delle torte in faccia. Anche perché ai tempi d’oro erano loro a tirarle e gli altri a riceverle. Da quando i ruoli si sono rovesciati, hanno scoperto che la torta ha tutto un altro sapore. 

 

Forse è il destino inevitabile dei partiti nati su un palcoscenico: a un certo punto, esaurite tutte le gag, raccontate tutte le barzellette, grattato il fondo del repertorio a base di caricature, nomignoli e storpiature, pidioti e psiconani, peti e pernacchie, bisogna pur calare il sipario. E anche in questo strano e mestissimo finale, una sorta di tragica e silenziosa commedia degli equivoci, c’è qualcosa che ricorda la fine del primo partito nato allo stesso modo, quell’Uomo Qualunque partorito dall’inesauribile fantasia di Guglielmo Giannini. Un partito nato da un commediografo, e nato prima di tutto da un giornale, proprio come il Movimento 5 stelle è nato da un blog. Ed entrato in crisi all’indomani dell’ennesima giravolta del capo sul terreno delle alleanze e dell’ideologia, che aveva portato a uno scontro durissimo tra il leader e il suo stesso gruppo parlamentare, proprio come quello tra gli eletti al secondo mandato dei Cinque stelle e il tenutario della piattaforma Rousseau. 

 

Solo che Giannini, in quel caso, era al tempo stesso Grillo e Casaleggio, l’attore e l’impresario, quello che scriveva il copione e quello che lo recitava. Il fondatore, alla fine del 1944, del settimanale L’Uomo qualunque, che al grido di “Abbasso tutti!” sarebbe arrivato a vendere – nell’Italia di allora – 850 mila copie, e nella sua strenua lotta contro i politici di professione (il termine “casta” non era ancora di moda, ma il senso era quello) non avrebbe mancato di costituirsi esso stesso in partito. Appena nato, il Fronte dell’Uomo qualunque avrebbe raccolto un clamoroso cinque per cento alle elezioni per la Costituente, nel 1946, e un successo ancora più significativo alle amministrative dell’anno dopo. Per andare clamorosamente in pezzi nell’ottobre di quello stesso 1947, tanto che alle politiche del 1948 Giannini non riuscirà nemmeno a entrare in parlamento (il Fronte, del centinaio di seggi che si aspettava di incassare, ne raccoglierà appena sette).

 

Non penso ci sia bisogno di spendere molte parole per spiegare il filo conduttore che lega qualunquismo e grillismo, il commediografo che inveiva contro il leader azionista Piero Calamandrei, storpiandone il nome in “Caccamandrei”, e il comico che se la prendeva contro “Gargamella” (Pier Luigi Bersani), “Elsa Frignero” (Elsa Fornero) e il “mafioso di Arcore” (Silvio Berlusconi). In entrambi i casi, dopo gli insulti, erano venute le offerte di alleanza e collaborazione, naturalmente nell’interesse del paese. Giravolte che avevano però aperto le prime crepe tra i sostenitori della linea originaria e i favorevoli al dialogo (con l’ulteriore complicazione che a volte, ma mica sempre, i favorevoli al dialogo con la destra non erano altrettanto favorevoli al dialogo con la sinistra).

 

“Il rischio scissione non è remoto”, recitava un’Adnkronos di giovedì, riportando l’allarme “lanciato da Vita Martinciglio, deputata della Commissione Finanze, nel corso della riunione serale dei capi-commissione M5s con l’ex premier Giuseppe Conte”. Vale a dire: “Potresti ritrovarti con una forza politica che non sarà più la prima in Parlamento”. Ma questo, più che un allarme, sembrerebbe una certezza. D’altronde, contare il numero delle scissioni che già ci sono state non sarebbe affatto facile, considerando che dall’inizio della legislatura il Movimento 5 stelle ha perso cento parlamentari. E forse sarebbe pure strano il contrario, per un partito arrivato in parlamento sull’onda di campagne no euro e no vax, passato in meno di tre anni dall’elogio dei “morbillo party” e della “libertà di scelta” di Paola Taverna al governo del primo lockdown sanitario della storia nazionale, e dai no euro party con Borghi & Bagnai al sostegno al governo Draghi.

 

Anche nel caso dell’Uomo qualunque, concretamente, a dividere il fondatore da buona parte dei suoi eletti era stata la scelta di sostenere il governo (De Gasperi, in quel caso, che Giannini avrebbe voluto sfiduciare), in quel fatidico ottobre del 1947. Ma pure lì, alla fin fine, a venire al pettine era sempre l’antica contraddizione del movimento nato per mandare a casa tutti, contestando l’intera schiera dei partiti e l’idea stessa di una politica professionale, che una volta arrivato in parlamento ed eletto il suo bel gruppo di deputati, guarda un po’, aveva scoperto che quelli di abbandonare la loro nuova professione proprio non volevano saperne. Anche lì, curiosamente, a fare esplodere tali contraddizioni era stato l’ultimo clamoroso tentativo di dialogo con la sinistra. Di più, proprio con Palmiro Togliatti e il Partito comunista, che dei qualunquisti erano stati originariamente il bersaglio privilegiato, con tutta la retorica dell’antifascismo e della resistenza, contro la quale Giannini aveva costruito gran parte delle sue fortune. Un dialogo avviato, per giunta, un attimo dopo avere tentato di andare al governo con la Democrazia cristiana, senza riuscirci. E questa, a ben vedere, è la principale differenza tra il Fronte dell’Uomo qualunque e il Movimento 5 stelle, che al governo invece è riuscito ad andarci eccome, con tutti.

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