La fiction su Fabrizio De André, l'anti Don Matteo che ha innescato un coro di elogi, ma anche una furibonda polemica sull’accento romanesco prestatogli dall’attore Luca Marinelli

Solo i santi vanno in tv

Andrea Minuz

Da madre Teresa alle sorelle Fontana il passo è breve. Se il biopic religioso si fonda sull’umanizzazione dei santi, la fiction d’impegno civile si lancia nella beatificazione di giudici, servitori dello stato, artisti

Con quasi vent’anni di programmazione alle spalle, uno straordinario immobilismo narrativo e un radicamento profondo nel territorio, “Montalbano” e “Don Matteo” ci consolano come un’intramontabile Prima Repubblica della fiction italiana. Il successo delle repliche di “Montalbano”, il fastidio degli spettatori per ogni minima variazione di “Don Matteo”, come nel caso delle recenti proteste innescate dal cambio di sigla per l’undicesima stagione, interpretano in modo formidabile un celebre slogan della Dc di Fanfani all’alba degli anni Sessanta: “progresso senza avventure”. Negli undici milioni di spettatori dell’ultima puntata di “Montalbano”, andata in onda lunedì con il 43,8 per cento di share, c’è quindi tutta la pronta risposta delle istituzioni, la difesa delle tradizioni, il ritorno all’ordine dopo l’entusiasmo un filo esagerato per l’apertura a sinistra della fiction su Fabrizio De André, un anti-Don Matteo che ha messo d’accordo i più acerrimi detrattori del canone in bolletta e innescato un coro unanime di elogi per una televisione improvvisamente illuminata dai bagliori della poesia. De André assunto nei cieli sconfinati di Rai Fiction, dove d’altronde c’è posto per molti, ma non per tutti: Bartali e Rocco Chinnici, Don Bosco e Nino Manfredi, Adriano Olivetti e Perlasca, De Gasperi e Mennea, Borsellino e Modugno, Boris Giuliano e Padre Pio, Walter Chiari, Rino Gaetano e Giovanni Di Vittorio. Padri della patria, padri spirituali, padri sindacali. Un’enclave laica, cattolica, gramsciana. Un “racconto del paese”, come amano dire a Viale Mazzini. Un pantheon nazionale accuratamente delocalizzato, rispettoso di usi, costumi e tradizioni locali, tanto che sugli accenti non si sgarra (vedi la furibonda polemica su De André, “principe libbero” con due romanissime “b” prestategli dall’attore Luca Marinelli, subito ribattezzato in rete “Faber Totti”). Lo spettatore italiano accetta di buon grado che Toni Servillo faccia Andreotti e Berlusconi con la maschera di Servillo, che Elio Germano trasformi Leopardi in Willy Wonka con la gobba, che il Padre Pio di Sergio Castellitto sembri da giovane Pippo Franco in un “decamerotico” e da vecchio Brunori Sas, poi però se gli toccano l’accento e l’inflessione dialettale va su tutte le furie. Più la recitazione è inutilmente enfatica, orribilmente sopra le righe, perennemente ostaggio del grottesco, dell’eduardismo, dei resti dello straniamento brechtiano, più ci si attacca alla verosimiglianza del dialetto, ai sapori della Liguria, i profumi della Sicilia, la pastiera napoletana. Immagine da cartolina, recitazione aulica e forsennata, molto sudore per nulla.

   

Ecco forse il segreto del successo di Montalbano, leader tiepido, vicino alla gente, lontano dai piedistalli degli eroi della fiction italiana

Il racconto della fiction si muove sulle sponde opposte di quella che chiamiamo “serialità televisiva”. Da un lato c’è l’universo liberista di Sky e Netflix coi loro romanzi criminali all’americana, la Napoli di “Gomorra”, la Milano di “1992”, la Roma di Ostia, “Suburra” o delle baby prostitute dei Parioli. Dall’altro, la fiction del welfare generalista, Rai e Mediaset, ma soprattutto Rai, costruita attorno ai due grandi bacini narrativi del sud e delle vite esemplari di magistrati, preti, poliziotti, artisti, preferibilmente ambientate negli anni Settanta (con la “passione politica”, l’Italia più vera, le piazze piene di bandiere rosse, la moto senza casco). Una lottizzazione perfetta del bene e del male.

   

Il genere biografico (o “biopic”) è stato il traino della fiction italiana contemporanea. Va da sé che le vite dei grandi italiani hanno sempre interessato la tv di stato, e i grandi sceneggiati degli anni Sessanta su Dante, Michelangelo, Cavour, Leonardo da Vinci, assieme agli adattamenti letterari dei classici, come “I promessi sposi”, erano vanto democristiano e fiore all’occhiello del progetto pedagogico della Rai. Ma la rinascita del genere, se così si può dire, scatta verso la metà degli anni Novanta. Sulla scia delle grandi trasformazioni del mezzo televisivo, la moltiplicazione dei canali, l’aumento vertiginoso della concorrenza, la fiction biografica diventa l’ideale terreno per stabilire un dialogo diretto con il pubblico popolare, producendosi in un numero esorbitante di titoli che non ha eguali negli altri paesi, anzitutto per una specifica, “fenomenale ascesa del biopic religioso nell’offerta e nel consumo di dramma televisivo domestico”, come scrive Milly Buonanno nel saggio “La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale”. Cuore dell’operazione è ovviamente la Lux Vide, casa di produzione specializzata sul tema, fondata da Ettore Bernabei nel 1992, poi messa in mano ai figli Matilde ed Ettore. A partire da qui, il biopic spirituale diventa ben presto uno dei generi prediletti dalla nuova fiction italiana. C’è la vasta operazione “Bibbia” (ventuno prime serate andate in onda tra il 1994 e il 2002, tra cui una micidiale “Genesi” diretta da Ermanno Olmi), ci sono gli ibridi “Don Matteo”, “Un passo dal cielo”, “Che Dio ci aiuti”, c’è il ciclo “storie di Santi” e “amici di Gesù”, coi vari “Padre Pio”, “Maria Goretti”, “Don Bosco”. La corsa ai santi fu in quegli anni forsennata e affollata. Si ricorda lo scontro tra i due Padre Pio della Rai e di Canale 5, una doppia fiction su Giovanni Paolo II e Santa Rita, una battaglia dello share tra “Gesù” e “Padre Pio” vinta dal Santo di Petralcina nella versione di Castellitto per riaffermare il carattere nazional-popolare del cattolicesimo italiano. Il biopic religioso fissava gli standard narrativi di tutti i nuovi biopic italiani a venire: stile visivo e narrativo di grande semplicità, andamento lento, quasi ipnotico del racconto, trucco posticcio degli attori, ben oltre l’insuperabile kitsch del Charlton Heston-Mosè di Cecil DeMille. Le agiografie della fiction italiana, tutte costruite sul conflitto metafisico tra bene e male, sono il risultato di un doppio movimento, di una “strategia dell’ascensione” che avvolge potere temporale, società civile e potere aziendale.

  

Il genere biografico, traino della fiction italiana. I grandi sceneggiati degli anni 60 su Dante, Leonardo, Cavour, la rinascita a metà anni 90

Da Paolo VI a Enrico Mattei e Madre Teresa e le Sorelle Fontana il passo è breve: se da un lato il biopic religioso si fonda su un’intensa umanizzazione dei santi, le fiction d’impegno civile si lanciano nella santificazione di magistrati, servitori dello stato, artisti. Raccontare la vita di Gesù per la Lux Vide significava raccontare “i miracoli, la preghiera, la passione, il cammino, ma prima di tutto l’uomo”; per i produttori del Padre Pio di Canale 5, più libertario rispetto a quello di Viale Mazzini, si trattava di mettere in scena “un personaggio laico, un uomo complesso, un uomo tormentato”; il Leopardi di Martone era “un po’ Pasolini, un po’ Kurt Cobain”; “dietro Rocchi Chinnici”, spiega Sergio Castellitto, “c’è il padre, l’amico, il giardiniere, il marito, l’uomo, prima del magistrato”. A furia di raccontare “l’uomo” il confine tra il santino e il ritratto si annulla. Nella costruzione di queste vite esemplari sempre più laiche, sempre più “dal basso”, si staglia il formidabile caso di Mimmo Lucano, sindaco di Riace. A luglio erano terminate le riprese della fiction Rai su di lui, “Tutto il mondo del paese”, con Beppe Fiorello nei panni di Mimmo Lucano, per raccontare e celebrare lo “straordinario modello di integrazione messo in atto dal sindaco”. “Lucano mi ricorda mio padre”, diceva Beppe Fiorello, “i suoi valori positivi, la sua integrità, il suo disarmante senso pratico”. “Con questa fiction promuoviamo l’immagine positiva della Calabria”, ribadivano produttori e Film Commission locale, “una terra dalle enormi potenzialità che si propone come modello per l’intera Europa”. Poi dopo la banda, le festa in paese, il taglio della torta e l’inno di Mameli arrivano le indagini della Procura di Locri: Lucano è indagato per abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di ospitalità e integrazione dei migranti. Sconcerto in paese. Panico a Viale Mazzini. La fiction, prevista per febbraio, è a tutt’oggi sospesa. La sua unica traccia è una foto di scena con Beppe Fiorello in fascia tricolore circondato da migranti felici: “Tutto il mondo è paese”. La parabola televisivo-giudiziaria di Mimmo Lucano è una metafora portentosa dello slancio agiografico della fiction italiana, del suo tentativo di trasformare i “fanti” in “santi”, delle ingerenze della politica, dove prima o poi spuntano sempre quelle della magistratura.

   

Il biopic religioso fissa gli standard narrativi: stile visivo di grande semplicità, andamento lento del racconto, trucco posticcio degli attori

Quando non è sotto scacco dei dirigenti aziendali, la fiction biografica italiana è ostaggio di parenti e familiari. La fiction su Rocco Chinnici è tratta dal libro di sua figlia, Caterina Chinnici. Dietro l’operazione De André c’è Dori Ghezzi (che ne esce in versione angelicata, quasi da Lux Vide, oltre a occupare la scena più del dovuto). “E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte”, ovvero la vita del magistrato Rocco Chinnici, è presentato come “un film di forte impatto emotivo anche per la sua capacità di raccontare l’essere umano, la relazione profonda con la propria famiglia e in particolare con la figlia più grande Caterina che sceglie di seguirne le orme”; una storia narrata, quindi, “dal punto di vista privilegiato di colei che ne condivideva la vocazione. Caterina Chinnici aveva un sogno, ovvero, come ha raccontato: far rivivere mio padre un’altra volta ed è per questo che ha scritto un libro”. L’intento è nobile ma si proietta inevitabilmente un’ingombrante ombra deamicisiana su tutto il racconto. In tutta risposta, Valsecchi si gioca subito il poker in perfetto equilibrio quote rose: “A testa alta” (Libero Grassi), “Delitto di Mafia” (Mario Francese), “La scorta di Borsellino” (Emanuela Loi), “Una donna contro tutti” (Renata Fonte). Immaginatevi “The Feud”, la serie tv sulla rivalità tra Bette Davies e Joan Crawford gestita interamente da familiari ed eredi che si accipigliano per frasi come “è andata a letto con tutta la Metro-Goldwyn-Mayer tranne la cagnetta Lassie”, con cui Bette Davies apostrofava la carriera della rivale. Da anni il film di Scorsese su Frank Sinatra è fermo perché i familiari si rifiutano di approvare una sceneggiatura che vorrebbe raccontare luci e ombre di quello che Scorsese ha definito “uno dei personaggi più complessi da raccontare”. Il biopic su Sinatra diventerà probabilmente l’ennesimo titolo maledetto della storia del cinema, come il Don Chisciotte di Orson Welles, il Mastorna di Fellini, il film di Sergio Leone su Leningrado e il Napoleone di Kubrick, ma in ogni caso avremo evitato il santino (a meno che non sia già pronta una controfferta di Rai Fiction con Beppe Fiorello nei panni di Sinatra e Favino che fa Dean Martin – ci fosse anche Christian De Sica, ci si può pensare). Da noi era tutto pronto per la fiction di Valsecchi su Massimo Troisi, ma i familiari frenarono un’operazione che Lello Arena aveva definito “una strage annunciata”, non si capisce se per eccesso di santificazione e stereotipi o per problemi simili al caso Sinatra che i familiari vorrebbero veder raccontato anzitutto per “la sua grande opera di beneficenza”.

   

Un paese privo di leadership genera una valanga di fiction biografiche. Sta qui forse il segreto del successo di Montalbano, leader tiepido, vicino alla gente, lontano dai piedistalli degli eroi nazionali della fiction italiana, che siano tormentati dall’arte, dalla fede o uccisi dalla mafia. Montalbano come Gentiloni, premier senza culto della personalità, né manie di grandezza. Montalbano diffidente verso la modernità, con un siciliano inesistente lontano anni luce dal napoletano di “Gomorra”. Montalbano perfettamente a suo agio in una fiction che guarda alla tradizione teatrale (non cinematografica) del nostro sceneggiato, con tanto di presentazione di Camilleri che ci spiega “il tono della puntata” e “il senso di una storia indirizzata verso la complessità dell’animo umano”, come coi film in tv della Rai degli anni Settanta presentati da Claudio G. Fava o le puntate di “Goldrake” introdotte da Peppino De Filippo. Montalbano con la mafia omeopatica, il sole, l’azzurrità del mare, tantissimo cibo genuino, donne robuste e mediterranee. Montalbano con l’allergia ai computer, l’odio per “questi minchia di social network”, i fogli ingialliti sui tavoli, gli appunti sui pizzini, il ferro battuto, i mobili in legno massello. Montalbano, Don Matteo e De André per un patto del Nazareno della fiction biografica italiana.

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