Alexey Navalny (Ansa)

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Con Kyiv e con Navalny, contro ogni invasione degli spazi di libertà

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - “Le dittature degli altri non ci danno fastidio”, ha scritto Ennio Flaiano (“Diario notturno”, 1956). Una verità ricordata da Giuliano Ferrara nel suo splendido editoriale di ieri sul Foglio. L’ennesima condanna di Alexei Navalny è stata accolta con un’alzata di spalle dall’opinione pubblica internazionale. In Italia, la sinistra pacifista e umanitaria non ha battuto ciglio neanche quando è stata messa fuori legge Memorial, l’ong fondata nel 1987 da Andrej Sacharov insieme con altri dissidenti sovietici per documentare l’orrore dell’universo concentrazionario staliniano. La Corte suprema russa ne ha ordinato la chiusura nella primavera del 2022 in quanto “agente straniero che riceve finanziamenti dall’estero”. Pochi mesi dopo, questa specie di “quinta colonna” è stata insignita dal Comitato norvegese – insieme all’attivista bielorusso Ales Bialiastski e all’ucraino “Center for civil liberties” – del Nobel per la Pace, per l’impegno profuso nel “documentare i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani e gli abusi di potere in Russia”. Il lettore italiano può farsi un’idea  di tale impegno grazie a un volume curato da due ricercatori di Millennial, Sergej Bondarenko e Giulia De Florio (“Proteggi le mie parole”, edizioni e/o, prefazione di Marcello Flores).  Il libro raccoglie venticinque discorsi di imputati in processi a sfondo politico, imbastiti nella maggioranza dei casi dalle diciotto agenzie di sicurezza che fanno capo al Cremlino. Ne ho acquistate due copie: una per Elly Schlein, l’altra per Giuseppe Conte. Sapranno farne buon uso? 
Michele Magno

La storia drammatica di Navalny è come un termometro della nostra capacità di tenere le antenne dritte sulla Russia non solo quando Putin bombarda una democrazia libera ma anche quando sceglie di aggredire i valori non negoziabili di una società aperta.  Per questo, mai come oggi, le parole di Navalny meriterebbero di essere pubblicate ogni giorno sui giornali: “Fate opposizione! Scendete in piazza! Nessuno, a parte noi, può proteggerci. E noi siamo tantissimi: se vogliamo davvero ottenere qualcosa, ce la faremo”. Vale quando si parla di Ucraina. Vale quando si parla di Navalny. Vale quando si parla di invasione degli spazi della libertà da parte dei criminali di guerra.


Al direttore - In riferimento all’articolo,“Taxi e caro voli, l’urgenza che non si vede e il decreto che non serve” a firma di Andrea Giuricin, pubblicato venerdì scorso dal Foglio, ci vediamo costretti a dover correggere una serie di imprecisioni. Se è vero che molte delle licenze taxi stanziate sono a titolo gratuito, è anche vero che esse nel tempo sono state oggetto di trasferimento a norma di legge (art. 9 l. 21/92). Esse sono oggi gravate da mutui per il 70-80 per cento dei casi, senza considerare quelle bandite a titolo oneroso dai comuni dal 2006 in poi. Certa vulgata, non sappiamo quanto interessata, ma sicuramente mal informata, vorrebbe che ciò fosse un unicum tutto italiano, quando è invece una costante almeno occidentale (si ricorda quando a New York le licenze raggiunsero il valore monstre di un milione di dollari, per poi crollare, con le sequenze di suicidi che ne derivarono, a causa della concorrenza sleale subita in seguito all’arrivo delle piattaforme i cui vettori non sono gravati dalle antieconomiche, ma a garanzia del consumatore, regole previste per i taxi?). Nell’articolo viene riportato che le licenze “a Roma, Napoli o Milano sono circa un terzo di Barcellona o Parigi (in rapporto agli abitanti)”. Questo è semplicemente falso, probabilmente perché il numero di abitanti considerato dal firmatario dell’articolo è sbagliato. A Parigi i taxi non servono la sola città di Parigi, ma ben quattro département che contano 5,7 milioni di abitanti, a Barcellona 3,5 milioni. Per capirsi, mentre in Italia i taxi sono comunali, in Spagna o Grecia sono regionali. Circa la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, essa non impatta minimamente sulle normative italiane, in quanto esse non prevedono alcun rapporto codificato taxi-Ncc come invece prevedeva la normativa catalana e le ragioni di contingentamento, se dal punto di vista logico sono un controbilanciamento agli obblighi di natura pubblicistica gravanti sui taxi (tariffa non libera ma amministrata, natura locale, obbligo di prestazione, obbligo di turno di servizio), sono in ogni caso assorbite dalle ragioni del giudice eurocomunitario che conferma la legittimità delle  normative nazionali che prevedano in via preventiva autorizzazioni per i mezzi di trasporto taxi e Ncc, per assicurare “obiettivi di corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico, e di protezione dell’ambiente”, ribadendo dunque l’indirizzo di esclusione del trasporto pubblico non di linea da politiche sintetiche di liberalizzazione tout court, già fatto proprio, d’altra parte, dalla direttiva Bolkestein.
Claudio Giudici, presidente nazionale Uritaxi

Risponde Andrea Giuricin. Gentile direttore, sono contento che si conferma che le licenze dei taxi sono state date quasi sempre gratuitamente dai comuni ai tassisti, i quali le hanno rivendute ad altri tassisti. Se il valore della licenza era zero in origine, vuol dire quindi che qualche tassista ha guadagnato a discapito di altri tassisti. Sul numero delle licenze, il punto chiave è che nelle grandi città il numero di servizi alternativi come nelle città di Londra e Singapore è tale che si soddisfa una domanda molto maggiore. Sulla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, nell’analisi si è sottolineato che questa può dare l’impulso alla politica a liberalizzare il numero delle autorizzazioni Ncc nel mercato italiano. D’altronde l’apertura a servizi efficienti dovrebbe essere l’obiettivo del legislatore e nessuna legge europea impedisce di fare questo. Non è perché “ce lo dice” l’Europa che bisogna dare servizi efficienti di mobilità non di linea, ma perché è nell’interesse di milioni di cittadini.
 

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