(foto di Ansa)

lettere

La sentenza della Corte suprema mette la riduzione dei diritti al centro delle battaglie dei pro life

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Grande clamore e grande scandalo per la sentenza della Corte suprema americana sull’aborto. Ma, come sempre, il clamore copre i termini reali della questione e impedisce di comprendere il vero nodo del problema. Dunque partiamo dalla storica decisione di quella Corte, data con la nota sentenza Roe v. Wade del 1973. Con essa si sancì che la libertà di abortire dovesse essere ritenuta un diritto della donna, valido come diritto “federale”, cioè vincolante per tutti gli stati, purché esercitato fino al tempo in cui il feto non fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, anche con l’ausilio di  sostegni artificiali. Secondo condivise opinioni scientifiche si stabilì che questa condizione potesse verificarsi, in media, intorno ai sette mesi (28 settimane), ma in alcuni casi anche prima, attorno alla 24esima settimana.

La ratio della scelta risulta evidente: si ritenne di realizzare un bilanciamento, discutibile come si dirà, tra due valori confliggenti, quello della libertà della donna e quello della vita del nascituro. La recente sentenza  della Corte americana del 24 giugno ha annullato quella sentenza, stabilendo che il se e il quando l’aborto possa essere considerato un diritto deve appartenere alla competenza del legislatore di ogni singolo stato. E’ difficile condividere una tale scelta. Su materie di tale valenza etico-politica, in cui sarebbe cosa saggia, ancorché utopistica,  pervenire a orientamenti condivisi a livello internazionale, è decisamente criticabile che uno stato federale, per bocca del suo massimo organo giurisdizionale, rinunzi a fissare sue regole generali, devolvendo la competenza  ai singoli stati e creando così una selva di legislazioni diverse. Ciò è tanto più grave in una realtà sociale molto divisa, che oscilla tra i poli opposti  dei negatori totali del diritto all’aborto e dei richiedenti la liceità della orrenda pratica del partial-birth abortion, che prevede un parto intravaginale parziale del feto vivente, con aspirazione del contenuto cerebrale dello stesso.

Per affrontare con consapevolezza adeguata la drammaticità del tema bisogna porre l’attenzione nella ricerca di un accettabile bilanciamento tra i due valori  in conflitto, capendo che la partita si gioca sul fattore tempo: più se ne dà alla donna per decidere la sorte della gravidanza, più si svantaggia il feto che col tempo si avvicina sempre più alla condizione di definita individualità. Intorno ai tempi e modi dello sviluppo del feto la scienza non offre certezze, perché la formazione del feto è un processo continuo che non consente di definire, sotto nessun aspetto, un prima e un dopo. Forse unica certezza scientifica è che dopo due giorni dalla fecondazione si verifica la c.d. transizione materno-zigotica e nell’embrione a 4/8 cellule si presenta la prima copia funzionale del genoma umano (ciò, si sostiene, dovrebbe far cadere ogni remora etica a produrre, entro quel tempo embrioni a fini scientifici). Ma sul tempo in cui si può dire già manifestata una soggettività individuale si naviga in mare aperto.

La commissione d’inchiesta inglese Human Fertilisation and Embryology nel rapporto Warnock del 1984 si pronunciò nel senso che prima del quattordicesimo giorno dal momento della fecondazione, quando compare il sistema nervoso, l’embrione non può essere considerato un individuo biologico. Ma, tanto per fermarci solo ad alcune posizione tra loro lontane,  c’è chi pone quel tempo quando nel feto si realizzi una condizione di autonomia del sistema respiratorio, cosa  che avviene dopo diversi mesi di sviluppo. Nella stessa Chiesa vi sono voci discordanti nel passato e nel presente. Per secoli la Chiesa cattolica ha seguìto la dottrina aristotelica delle tre anime, vegetativa, animale e spirituale che venivano infuse in progressione durante la gravidanza. I domenicani si sono perciò opposti a lungo alla definizione del dogma dell’Immacolata concezione, ritenendo impossibile una condizione spirituale in un appena concepito.

Ricchissima è, inoltre, la trattatistica sull’anima, sul come e sul quando essa si unisce al corpo, a partire dai tormenti di sant’Agostino. Anche al presente non mancano voci discordanti, fuori dal rigorismo ufficiale del catechismo. Nelle stesse società dell’ormai affermata postmodernità e del dominio delle tecnoscienze le divaricazioni sono profonde, come dimostrano i clamori delle contrapposte manifestazioni di piazza. E allora, immersi in tanta incertezza, il problema è trovare un punto di possibile convergenza tra le incertezze scientifiche, sociali, etiche e religiose. Questo punto, come già accennato, si trova nel miglior equilibrio possibile tra i valori in conflitto, ribadendo che la partita si gioca sul fattore tempo: più se ne dà alla donna per decidere la sorte della gravidanza, più si svantaggia il feto che col tempo si avvicina sempre più alla condizione di definita individualità. Sotto tale profilo la, da tanti, oggi rimpianta sentenza della Corte americana del 1973 non si può dire che, con la soluzione adottata, avesse assicurato il miglior equilibrio possibile tra i due valori, sembrando invece decisamente sbilanciata in favore del valore ‘libertà della donna’.

Concedere infatti alla donna fino a sei mesi dall’inizio della gravidanza per decidere se portarla a termine è un darle decisamente troppo, perché il più tempo dato a lei si risolve in minore protezione data al feto. Decisamente più equilibrata è la soluzione data in Italia dalla legge 22 maggio 1978 n. 194 che consente l’aborto entro i primi 90 giorni di gravidanza e, dopo tale termine, solo nei  casi eccezionale menzionati dall’art. 6, cioè: “Quando  la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando  siano  accertati  processi patologici, tra cui quelli relativi  a  rilevanti  anomalie  o  malformazioni del nascituro, che determinino  un  grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. Questa soluzione, anch’essa non esente da critiche su versanti opposti, sembra assicurare un più accettabile equilibrio tra i valori in conflitto. Se il clamore e la reciproca sordità degli schieramenti che nel mondo si fronteggiano sull’onda della nuova sentenza della Corte americana, potessero cedere il passo al sincero ascolto delle coscienze,  forse  potremmo raggiungere la pace almeno su questo fronte.
Ortensio Zecchino

 

Se la sentenza della Corte suprema aiutasse gli Stati Uniti ad avvicinarsi a un modello simile alla legge 194 sarebbe un bel passo in avanti. Ma ho paura che la sentenza della Corte suprema vada in tutt’altra direzione: mettere la riduzione dei diritti al centro delle battaglie dei pro life. Leggete sul Foglio di domani Marco Bardazzi su questo tema. 

 


 

Al direttore - Ha ragione Cacciari: la mossa di Di Maio fa pensare a una regia in vista delle elezioni. Ci aspettiamo qualcosa del genere anche dai ministri di Forza Italia, Brunetta e Carfagna, che non paiono rassegnati alla deriva del loro partito in un centrodestra che ha perduto cultura di governo. Qualcuno parla di trasformismo, ma sono operazioni politiche che affrontano la questione centrale per l’Italia a pochi mesi dal voto: con la guerra in Europa e l’inflazione a due cifre, col debito oltre il 150 per cento e il Pnrr tutto da realizzare, o si prosegue con Draghi anche nella prossima legislatura o sarà il disastro, e cambia poco se la mano che ci spingerà nel burrone sarà quella di Salvini o di Meloni.

Dove portano queste azioni di riposizionamento? Non al partito di Draghi o al grande centro, ma a una coalizione europeista – dal Pd ai centristi agli ex di Forza Italia – che nel nome del premier può pensare di vincere le elezioni. Un po’ come alle amministrative, dove vince chi presenta il candidato sindaco migliore. E il campo largo? Tutti i segnali dicono che ci penserà Conte a sollevare Letta dall’imbarazzo: non avendo altro scopo che recuperare i consensi perduti, uscirà presto o tardi dalla maggioranza (verosimilmente non si presenterà alle elezioni come partito di governo), lacerando irrimediabilmente l’alleanza col Pd. Tutto facile, quindi? Non credo. L’operazione politica nel nome di Draghi non può fare a meno di affrontare due questioni cruciali. La prima: la democrazia vuole che i leader si presentino al giudizio degli elettori. Un conto è essere chiamati a formare un governo in corso di legislatura, dopo lo sfaldamento di una maggioranza; un altro è chiedere ai cittadini di votare per la coalizione di un premier non candidato.

Le critiche sarebbero più che giustificate. Non c’è altra soluzione che Draghi si esponga, come fece Prodi nel ’96. Questa volta formando una coalizione aperta, basata sulla proposta di governo, fuori dello schema destra/sinistra. Seconda questione: quale prospettiva offrire al paese oltre la contingenza di breve termine? Il fallimento delle rappresentanze politiche tradizionali rende infatti non rinviabile la proposta di un assetto stabile delle istituzioni, che ponga fine all’agonia della Seconda Repubblica. L’operazione Draghi sarebbe dirompente se comprendesse l’impegno a coinvolgere i partiti d’opposizione in una legislatura costituente, per dare all’Italia l’elezione diretta del presidente e un Parlamento non più paralizzato dal bicameralismo.
Enea Dallaglio