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Sul diritto di sciopero in tempo di pandemia ha ragione Lamorgese

Le lettere al direttore Claudio Cerasa dell'12 novembre

Al direttore - Vaff Godesberg! 
Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Capisco che difendersi dal virus sia la battaglia più importante del momento, come ha ricordato anche ieri il Foglio, ma non capisco come sia possibile non indignarsi di fronte a un ministro che sceglie di limitare libertà costituzionalmente garantite come il diritto allo sciopero. 
Luca Martini

 

Su questo punto penso abbia ragione il professor Bassetti, che ha giustamente ricordato ieri, nel corso di  una puntata di “Tagadà” (La7), che avere manifestazioni senza nessun tipo di controllo (vedi Trieste) non è il massimo in un momento di alta circolazione del virus. In altre parole: è giusto garantire il diritto di manifestare ma è altrettanto giusto evitare che manifestazioni legittime possano trasformarsi in un danno per la salute. E dunque, se la domanda è se il ministro Lamorgese abbia fatto bene o male a individuare “specifiche aree urbane sensibili, di particolare interesse per l’ordinato svolgimento della vita della comunità, che potranno essere oggetto di temporanea interdizione allo svolgimento di manifestazioni pubbliche per la durata dello stato di emergenza, in ragione dell’attuale situazione pandemica”, la risposta è sì.

 


 

Al direttore - A chiusura della prefazione al volumetto, pubblicato in occasione del bicentenario della nascita che cade in questi giorni, che raccoglie tre splendidi discorsi che Vladimir Soloviev dedicò a Dostoevskij, il metropolita Hilarion di Volokolamsk cita una lettera in cui Dostoevskij, tornato dalla Siberia dopo quattro anni di lavori forzati, dice: “In questi anni ho composto dentro di me un credo in cui tutto per me è chiaro e sacro. Questo credo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è niente di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo”. Mai citazione fu più azzeccata. Essa esprime al meglio il “segreto” di Dostoevskij, il fatto cioè di essere stato, prima ancora che uno scrittore, un apostolo. O meglio, un apostolo (e un profeta) che svolse la sua missione tramite la letteratura. Capolavori come “I fratelli Karamazov”, “I demoni”, “L’idiota”, “Delitto e castigo”, eccetera, non sarebbero neanche lontanamente concepibili al di fuori di una prospettiva di fede, allo stesso modo della “Divina commedia” per Dante. Ciò spiega anche la straordinaria capacità dello scrittore russo di avere illuminato come pochi l’animo umano, laddove i personaggi di Dostoevskij sono sì figli del suo tempo ma il cui cuore (biblicamente inteso) è lo stesso di ogni epoca. Un cuore che non la violenza né la rivoluzione potranno mai cambiare ma solo la fede in Cristo. Ecco perché, contrariamente al socialismo politico che voleva livellare tutti verso il basso in un’ottica puramente materiale, Dostoevskij – nota Soloviev – si spese per innalzare gli uomini “al livello morale della Chiesa quale fratellanza spirituale, sia pure conservando l’ineguaglianza esteriore delle situazioni sociali”. Una lezione quanto mai attuale e sulla quale andrebbe fatta una seria riflessioni in quanto tocca due domande cruciali del discorso pubblico, ossia a) se e in che misura una società, quale quella occidentale, ed europea in particolare, può permettersi di continuare a vivere “etsi Deus non daretur”, e b) se il giusto modo di porsi nei confronti della vita sia quello, come sembra prevalere, di un livellamento verso il basso di aspirazioni, valori, eccetera (meglio “volare bassi”, quante volte ce lo sentiamo ripetere?), o non piuttosto quello di rialzare l’asticella e tornare a guardare verso l’alto.
Luca Del Pozzo

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