Intercettazioni & diffamazioni. E Masi che dice la sua su Minoli

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 13 aprile 2021

Al direttore - Raggi: non è l’arena.
Giuseppe De Filippi

 

Nimes profeta in patria.

   


 

Al direttore - Truffa ai danni della Regione Abruzzo. Così ha stabilito con sentenza definitiva la Suprema Corte di cassazione a carico di Vincenzo Angelini, già magnate della sanità privata abruzzese e “grande accusatore” di Ottaviano Del Turco, allora presidente della regione. La GdF, in un blitz all’alba, ha già provveduto, con grande rilievo sulla stampa locale, al sequestro dei beni dell’imprenditore. Questo fatto dovrebbe far capire al Consiglio di presidenza del Senato che i profili giudiziari del caso Del Turco meriterebbero quella revisione del processo richiesta dal collegio di difesa. Ma nessuno pretende che il Consiglio si sostituisca ai giudici naturali quando, giovedì prossimo, si riunirà per decidere sulla sorte del vitalizio/pensione di Ottaviano Del Turco in applicazione della famigerata delibera Grasso-Boldrini del 2015. In questa brutta storia non c’entra solo una questione umanitaria riguardante una persona gravemente malata. Senza sconfinare nel campo giudiziario o limitarsi a invocare un atto di clemenza, esistono anche dei solidi argomenti giuridici per sostenere che la delibera non è applicabile a Del Turco. La norma riguarda, infatti, gli ex parlamentari condannati in via definitiva per reati contro la Pubblica amministrazione con esplicito riferimento al peculato e alla concussione. Da quest’ultimo reato De Turco venne assolto, mentre fu condannato in via definitiva per il reato di “induzione indebita a dare o promettere utilità” previsto dall’articolo 319 quater del codice penale. Tale fattispecie di reato fu estrapolata, dalla legge Severino del 2012, da quella della concussione. L’induzione ha quindi un profilo specifico solo da allora; e nel caso in esame ha ricevuto una applicazione retroattiva a fatti avvenuti nel 2006-2007. Ne deriva quindi che, prima della entrata in vigore della norma, le azioni sanzionate dall’articolo 319 quater c.p. o non costituivano reato (nel qual caso Del Turco non può essere punito ora per allora) oppure rientravano nella fattispecie della concussione, reato da cui Ottaviano Del Turco è stato assolto in giudizio.
Giuliano Cazzola

 

A proposito di sentenze. Ieri pomeriggio è arrivata la notizia che il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, è stato condannato per diffamazione a mezzo stampa nei confronti dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dalla prima sezione del tribunale civile di Roma. Il giudice, riferendosi a una campagna stampa molto aggressiva portata avanti dal Giornale contro l’ex capo dello stato tra il 2015 e il 2017 – “Napolitano presidente sotto ricatto” (11 luglio 2015); “Il complotto di Napolitano & C.” (24 febbraio 2016); “Mafia, quando Napolitano salvò i politici” (29 aprile 2016); “Le telefonate segrete di Napolitano che fanno tremare Renzi” (3 giugno 2016); “Il golpe infinito di Napolitano” (24 luglio 2016); “Le trame di Napolitano per depotenziare il No” (14 settembre 2016); “Napolitano, il grande sconfitto che ha messo in ginocchio il paese” (5 dicembre 2016); “Le trame di Re Giorgio intercettato al telefono” (2 febbraio 2017) – ha scelto di condannare il direttore perché “nei titoli e negli articoli sopra in parte trascritti il Sallusti si riferisce reiteratamente al senatore Napolitano utilizzando oltre a espressioni e accostamenti suggestivi, allusivi e insinuanti, termini quali trame, golpe, complotto, alto tradimento che travalicando il limite della continenza e correttezza espressiva si traducono in un attacco alla persona e alla dignità dell’ex Capo dello Stato che integra gli estremi della diffamazione e, segnatamente, dato il mezzo usato, della diffamazione a mezzo stampa, ovvero di un illecito civile e penale”. Il tribunale di Roma probabilmente non ha torto a considerare diffamatori alcuni titoli. Ma ciò che dovrebbe far riflettere della sentenza è il principio utilizzato per condannare il direttore del Giornale che dovrebbe essere applicato per tutti, non solo su Sallusti. Il Giornale, ha scritto il giudice Stefania Ciani, “non ha dato prova specifica e puntuale della verità oggettiva o putativa dei fatti divulgati e ha ecceduto i limiti della così detta continenza” perché “si è limitato a richiamare e riportare il contenuto di conversazioni telefoniche intercettate e affermazioni rese da terze ulteriori fonti di informazione”. Eccolo il punto: considerare diffamazione alcuni titoli che si limitano in modo approssimativo a richiamare e a riportare su un tema “il contenuto di conversazioni telefoniche intercettate e affermazioni rese da terze ulteriori fonti di informazione”. Dove si firma?

 


 

Al direttore - Faccio riferimento all’articolo “ScialacqueRAI” apparso sul Foglio lo scorso venerdì 9 aprile che, a mio avviso, apre un dibattito importante sul diritto d’autore e web e che chiama in causa anche me per una vicenda che risale all’ormai lontano 2010, quando da direttore generale della Rai avevo pensato di indicare Giovanni Minoli come coordinatore responsabile della struttura di missione che la Rai voleva creare per meglio gestire il grande impegno dell’azienda per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Ricordo molto bene che dei nove componenti del Cda di allora ben otto erano inizialmente contro la nomina di Minoli (essenzialmente perché pensionando), nomina  che poi però riuscii a far approvare e la Rai (tutta la Rai in realtà, non solo la validissima struttura di missione di Minoli) svolse al meglio il suo compito di servizio pubblico come fu ricordato anche dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ebbene in quel contesto negoziammo un difficilissimo accordo con Minoli che prevedeva, tra le altre cose, anche una clausola che gli riconosceva, dopo dieci anni e se non ci fosse stata rinegoziazione, alcuni diritti connessi a “La Storia siamo noi”. In realtà la Rai riconosceva a Minoli i diritti sui testi a suo tempo ideati dato che la titolarità dei diritti di utilizzazione economica dell’opera nel complesso spetta sempre e comunque alla Rai che è l’unica che può autorizzare la diffusione. Quindi nessun regalo ma una clausola che rientrava pienamente nella prassi di settore e nel diritto comune. Vero è che il materiale non è utilizzabile (né, a maggior ragione, vendibile) senza il consenso di Rai così come senza il consenso di Minoli. Da qui l’ovvia rationale della clausola che spingeva le parti verso una auspicata rinegoziazione per la quale concedeva ben dieci anni di tempo (dico, dieci anni!!!, un tempo infinito per contratti di questo tipo). Da allora in Rai si sono succeduti quattro diversi capo azienda e tre diverse consiliature e nessuno ha ritenuto di farlo. Il motivo, provo a ipotizzare, è piuttosto chiaro: nessuno ha chiesto nulla e ciò non perché il materiale di cui si parla sia poco interessante, tutt’altro, ma perché in questi anni è esplosa anche da noi la rete, il web, YouTube ecc. dove tutto è rintracciabile e utilizzabile sempre e comunque senza riconoscere il diritto d’autore o d’immagine e quindi senza chiedere nulla a nessuno. Questo – e lo dico da delegato italiano alle proprietà intellettuali nominato dall’allora ministro degli Esteri D’Alema e sinora sempre rinnovato – è, purtroppo, un dato di fatto. La rete, nonostante gli sforzi di molti noi, è tutt’ora un Far West dove, fatti salvi gli interessi ipermiliardari delle Over The Top (le imprese “Sopra a Tutto”: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), tutti possono fare e ottenere quello che vogliono e utilizzarlo come credono senza, di fatto, incorrere in alcun rischio legale. Faccio un esempio, fra i tanti possibili: dei filmati cosiddetti “esclusivi” sul ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, in rete se ne trovano gratis e a bizzeffe; basta saperli cercare. Questi sono i fatti e, in questo contesto, la Rai attuale sta facendo – secondo la mia opinione – quello che deve fare e sono del tutto certo che anche anche il mio amico Giovanni – che da quel grande comunicatore che è sta difendendo da par suo i suoi legittimi diritti – in cuor suo, lo sa benissimo. 
Caro direttore, ti ringrazio per l’attenzione e ti saluto con viva cordialità.

Mauro Masi

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