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Il capo dello stato in fila per il vaccino non è un atto dovuto

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - E ora però con chi si potrà sostituire Letta?
Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - La scelta del presidente della Repubblica di vaccinarsi rispettando la fila, anzi scegliendo di mettersi in fila, contiene un messaggio. Lei, direttore, lo ha così decodificato: è “finalizzato unicamente a dimostrare che vaccinarsi deve essere un diritto non un privilegio”. Una sintesi perfetta. Ma perché Mattarella ha sentito la responsabilità di testimoniare con un comportamento forte (e senza spendere parole) ciò che dovrebbe essere ovvio? Provo a rispondere partendo dalle ipotesi meno probabili. La prima, la più improbabile, è che anche Mattarella abbia aderito al credo “dell’uno vale uno” fino al punto di considerare privilegio ingiustificato quello del capo dello stato che fosse vaccinato prima o anche solo “a domicilio”, in ragione della carica. Ma messa così la scelta si trasformerebbe in adempimento di un dovere e, quel che è peggio, Mattarella avrebbe depauperato la carica, la più alta della Repubblica, che riveste e che per primo è chiamato a tutelare. La seconda, altrettanto improbabile, è che pur conscio della carica, della funzione essenziale che essa ha per la tenuta del sistema democratico e della necessità del corredo di prerogative (e come potrebbe non esserlo a questo punto del mandato?) Mattarella abbia voluto inseguire il consenso. Certo, deve saper bene che sono tanti quelli che abboccano all’inganno  degli atteggiamenti plebeistici di tanti rappresentanti delle istituzioni, ma perché dovrebbe emularli? Perché ora, quando il mandato che ha onorato per sei lunghi e difficili anni si avvicina al termine e ha già ampiamente chiarito di non essere disponibile alla rielezione? Probabilmente, invece, ci si avvicina di più alla verità se si guarda al contesto. Alla corsa al vaccino intrapresa dalle categorie (magistrati, professori universitari, giornalisti e via dicendo) con documenti e appelli che rimarcano l’essenzialità del proprio servizio, senza guardare a quello degli altri. E dai singoli, soprattutto nelle segrete stanze. Da moltissimi di coloro che gestiscono una qualche porzione di potere, in particolare da alcuni di quelli che sono chiamati a compilare le liste degli aventi diritto e definire gli ordini. Si pensi ai non pochi di questi che, miracolosamente, si sono trovati in cima a quelle liste “perché se si ferma il vertice, si blocca l’intera catena di comando”. E che dire di quelli che hanno inserito parenti, amici, anche singoli conoscenti per mostrare il proprio potere? Insomma di quel coro di “prima io”, come se l’essere vaccinati fosse uno status symbol? E forse a questo il capo dello stato ha voluto reagire. Ha voluto ricordare, con un comportamento personale, che il paese ha bisogno di coesione per poter affrontare la drammatica crisi in cui si trova e che non basta l’afflato di fratellanza dei canti comunitari dai balconi, ormai dimenticati. La solidarietà passa innanzitutto per la lealtà. E il coraggio di abbandonare la nave per ultimi non guasta in chi il paese è chiamato a guidarlo. Ma quanti, oltre ad apprezzare a parole quel gesto, vorranno seguirlo? Un bel banco di prova per le nostre “élite”, grandi e piccine, tutte così in crisi.
Pier Domenico Logroscino 

 

Non c’è dubbio che il capo dello stato abbia scelto di mettersi in fila come tutti gli altri per le ragioni che lei dice. Così come non c’è dubbio che gli stessi che oggi plaudono alla sua scelta, e che probabilmente pagherebbero oro per saltare la fila, sarebbero scesi in piazza con i forconi qualora il capo dello stato avesse deciso di vaccinarsi quando possibile, e non quando previsto. Il problema non è la scelta fatta da Mattarella, ma il fatto che venga considerato doveroso che il capo dello stato, in alcune circostanze come questa, debba essere considerato un cittadino come gli altri. Semplicemente non lo è. 


 

Al direttore - E’ passato un anno dallo scoppio della pandemia, che ha inciso pesantemente sul mercato del lavoro globale. Il 2020 si è chiuso con 444 mila occupati in meno solo in Italia e ancora non possiamo aspettarci una netta ripresa in termini di occupazione nei prossimi mesi. Le imprese sono infatti ancora molto caute su eventuali aumenti del personale. Dalla nostra ultima indagine periodica sulle previsioni occupazionali, il Meos (ManpowerGroup Employment Outlook Survey), per il secondo trimestre del 2021 emerge che a livello nazionale, a fronte di un 12 per cento di datori di lavoro che si attende un aumento di assunzioni, il 75 per cento non prevede alcun cambiamento. Significa che, considerando anche gli aggiustamenti stagionali, la prospettiva di occupazione netta si ferma a un -2 per cento, cioè dieci punti in meno rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Come sempre, non si tratta di un dato omogeneo. Tra le imprese, solo quelle del nord-est prevedono una lieve crescita, mentre nel resto d’Italia, in particolare al centro, le previsioni restano negative. Se poi le grandi aziende si aspettano un aumento delle assunzioni (+3 per cento), i datori di lavoro di piccole e microimprese preannunciano un peggioramento, con cali rispettivamente del -5 per cento e del -4 per cento. La situazione varia anche da settore a settore: la più grave è quella della ristorazione e degli alloggi, fra i comparti più colpiti dal Covid, con una prospettiva di occupazione netta del -24 per cento, seguita dal settore “Altra produzione” che prevede un crollo pari a -7per cento. Al contrario, arrivano segnali positivi dal settore “Altri servizi”, che si aspetta invece un aumento del 6 per cento, e dalle costruzioni (+5 per cento). Di fronte a questo scenario, sono due le sfide principali per aziende e lavoratori: la transizione accelerata verso il digitale e l’upskilling dei profili professionali. E’ chiaro che in un contesto come l’attuale vi sono comparti più a rischio, ma ve ne sono altri che invece stanno riuscendo a cogliere l’opportunità della trasformazione digitale, e che oggi hanno quindi bisogno di competenze nuove. Diventa allora fondamentale investire in formazione, anche in termini di upskilling o reskilling delle persone in azienda. Non solo, ma come ha rivelato lo studio predittivo che abbiamo recentemente realizzato con EY e Pearson, nei prossimi dieci anni crescerà la richiesta di figure professionali sempre più ibride, capaci di integrare conoscenze tecniche con specifiche qualità professionali, le cosiddette soft skills (attitudini relazionali e al team-work, resilienza, autonomia, problem solving, eccetera). E’ un aspetto, questo, cruciale già oggi per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. Serve però un grande investimento in politiche attive. Le risorse in arrivo dal Next Generation Eu consentono di mettere in campo finalmente strategie più ampie e definire obiettivi concreti a medio e lungo termine che vadano oltre le soluzioni temporanee per tamponare l’emergenza. E’ ora di farne un uso prezioso e di cogliere un’opportunità che difficilmente si ripresenterà per diverso tempo. 
Riccardo Barberis, amministratore delegato ManpowerGroup Italia

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