Irresistibile Chernobyl

Mariarosa Mancuso

Esplosioni nucleari, bugie e verità. Brividi e terrore, del resto non potevamo aspettarci altro

Da vedere è tosta, non potevamo aspettarci altro. “Una delle peggiori tragedie mai provocate dall’uomo”, avverte lo slogan scelto per lanciare la miniserie “Chernobyl”: irresistibile come sono le sciagure. E anche se ne abbiamo in mente altre, di tragedie, il terrore provocato dalle parole “centrale nucleare” e il ricordo che abbiamo di un film come “Morto Stalin, se ne fa un altro” (lo ha diretto Armando Iannucci, dalla graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin) mettono i brividi. Il cadavere di Stalin era ancora caldo, e già cominciavano le lotte di potere. L’aria di famiglia si rafforza se vediamo la serie in originale, recitata da attori britannici come Jared Harris e Emily Watson.

 

Figuriamoci cosa può capitare con un paio di esplosioni in una centrale nucleare (pare durante un test andato malissimo) che scoperchiano il tetto e avvelenano l’aria con una radioattività 200 volte superiore alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Primo minimizzare. Poi teorizzare: “In Unione sovietica un incidente del genere non può succedere” (come non potevano esistere nella nazione perfetta i serial killer, degenerazione del sistema capitalista). Infine trovare qualcuno a cui addossare le colpe, condannando a dieci anni di carcere Anatoly Dyatlov, che quella notte aveva diretto le operazioni.

 

“Il problema con le bugie non è che le prendiamo per verità. E’ che ne abbiano sentite talmente tante che non riconosciamo più la verità” dice al microfono del registratorino a cassette un solitario che vive con il gatto. Dà da mangiare al micio, nasconde le cassette e si suicida, in uno squallore sovietico che leva il fiato. E’ Valery Legasov, capo della commissione d’inchiesta del Cremlino. C’erano criminali peggiori, insiste. Ma aggiunge, a scanso di equivoci: “Dyatlov avrebbe meritato la morte” (il gatto continua a poltrire sul divano, facendosi le unghie sulla coperta con i cervi ricamati).

 

Flashback al giorno fatale – “Due anni e un minuto prima”, dice la scritta – quando la centrale di Chernobyl, nella notte del 26 aprile 1986 spara un fascio di luce. Sul Foglio di sabato scorso Francesco Cataluccio, che a Chernobyl ha dedicato un volumetto uscito da Sellerio, ha ricostruito le circostanze con maggiore precisione di quanto sappiamo fare noi che traffichiamo con le serie tv. L’incidente pare piuttosto grave, ma il misuratore di radiazioni è taroccato, si ferma a 3,6 Rontgen. Il contatore affidabile sta in cassaforte, e non si capisce chi abbia la chiave: trovarlo sarà il tormentone del primo episodio (che è andato in onda lunedì 10 giugno su Sky Atlantic, e in streaming su Now Tv).

 

Il nocciolo del reattore andrebbe raffreddato (anche se forse il nocciolo del reattore già non esiste più, gli ingegneri non concordano). Lo spettatore assiste terrorizzato alle manovre di apertura manuale del circuito di raffreddamento, alla bassa forza che viene mandata a vedere cosa succede, alla forza non tanto bassa che si sporge dal tetto e viene investita dalla nube nera che rende i volti paonazzi. All’ospedale dottori e infermiere si aspettano una notte tranquilla, non ci sono partorienti in travaglio. I ragazzini giocano con l’aria che brilla, sotto gli occhi dei genitori.

 

Alla fine della prima puntata gli studenti in divisa si avviano verso la scuola di Pripjat. L’evacuazione – di 350 mila persone – cominciò parecchie ore dopo. Lo sceneggiatore Craig Mani e il regista Johan Renck (da “The Walking Dead”) hanno altri quattro episodi e ne faranno buon uso. La Russia già minaccia una contro-serie, con la sua verità.

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