Ecco “Fosse/Verdon”. La speranza è che ci sia tanto tip tap e poche ripicche coniugali

Perché la miniserie farebbe bene a non insistere sulle amanti di lui e sulle sofferenze di lei, che continuò a far coppia nelle coreografie anche quando non stavano più insieme. Ma in tempi di #Metoo non si è mai abbastanza diffidenti

Mariarosa Mancuso

Bob Fosse lo conosciamo, per “Cabaret”, per “Lenny” e per “All That Jazz-Lo spettacolo comincia”: autobiografia con l’angelo della morte che aspetta il suo tributo, dopo un infarto. Gwen Verdon la conosciamo meno. Prima che cominci la litania “grandi uomini arrampicati sulle spalle di una grande donna” va chiarito che lavorava a Broadway, che fu lei la prima Roxie – l’assassina in cerca di celebrità – nel musical teatrale “Chicago”. Bob Fosse lo aveva costruito sulla bravura di Gwen Verdon, come “Sweet Charity“, molto liberamente tratto da “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini. Per agevolare il delicato passaggio da Broadway a Hollywood, i produttori pretesero un’attrice e ballerina conosciuta da chi andava al cinema. La parte della “ragazza che voleva essere amata”, (come suggerisce il titolo italiano del film, annata 1969) toccò a Shirley MacLaine. E non fu un gran successo.

 

Speriamo che la miniserie “Fosse/Verdon” (8 episodi, dal 18 aprile su Fox Life, con pochi giorni di ritardo rispetto all’uscita americana su FX) non insista sulle amanti di lui – non c’era ballerina che gli sfuggisse – e sulle sofferenze di lei, che continuò a far coppia nelle coreografie anche quando non stavano più insieme. In tempi di #Metoo non si è mai abbastanza diffidenti. E il filone “artisti vampiri, compagne che si fanno mordere sul collo” era già stato ampiamente sfruttato.

 

Speriamo, perché la storia da raccontare ripercorre gli anni d’oro di Broadway, dove succedevano cose più interessanti dei tradimenti (le corna succedono in tutti i luoghi di lavoro, anche tra le scrivanie). Lin-Manuel Miranda di “Hamilton” sarà il produttore esecutivo, da uno che ha saputo scrivere un musical sulla Costituzione americana e il padre fondatore che sta sul biglietto di dieci dollari aspettiamo grandi cose.

 

Ci aspettiamo grandi cose anche da Sam Rockwell e Michelle Williams, gli attori scelti nei ruoli di Bob Fosse e Gwen Verdon. Con uso di tip tap, certo, mischiato con la danza moderna e il jazz. Segni particolari: le ginocchia a spigolo, e quel lavorio di mani che si riconosce all’istante. Gli attori americani sanno far tutto e non temono di apparire calvi. Bob Fosse si era fatto notare nel film “Kiss me Kate” (le musiche erano di Cole Porter) tratto da “La bisbetica domata” di Shakespeare. I bisticci tra Caterina e Petruccio erano raddoppiate nella trama dai litigi tra gli attori, coniugi rissosamente divorziati, mentre due gangster venuti a riscuotere un debito di gioco pretendevano un posticino sul palco (per cantare “Brush up Your Shakespeare”, a quel tempo anche il recupero crediti frequentava scuole decenti). Ma appunto era calvo, aveva più possibilità dietro le quinte, come coreografo (8 Tony Award) e regista (un altro Tony Award). Gwen Verdon era già una star, quando incontrò il coreografo: fu lei a intercedere per una seconda possibilità cinematografica, dopo l’insuccesso della prima.

 

Il film era “Cabaret”, fruttò a Bob Fosse il successo la bellezza di otto Oscar (la Palma d’oro a Cannes arriverà per “All That Jazz”, a pari merito con Akira Kurosawa per “Rashomon”, presidente di giuria era Kirk Douglas, cose che succedevano nel 1980). E siamo al secondo grande rischio che la miniserie ha scelto di correre: trovare due attori in grado di rendere giustizia a Liza Minnelli e al maestro di cerimonie Joel Grey.

 

Bob Fosse ballò il tip tap al funerale dell’amico sceneggiatore Paddy Chayefsky, glielo aveva promesso e mantenne la parola. Son queste le scene che aspettiamo: le corna e le ripicche coniugali gira e rigira sono sempre le stesse.

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