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La versione di Cassese

È un bene per la democrazia che il debito pubblico resti in tasca alle famiglie

È sui conti che tutti s’accapigliano, soprattutto da quando il Parlamento ha conquistato sempre più potere

Professor Cassese, per quasi tutto l’anno si discute di bilancio. Questo è diventato il centro della vita collettiva del paese.

Secondo il mito, la dea della discordia, per vendicarsi di non essere stata invitata al banchetto nuziale di Peleo e Teti, lanciò sul tavolo un pomo con su scritto “alla più bella”, ciò che fece scoppiare una lite tra Era, Afrodite e Atena. Allo stesso modo, il bilancio è il pomo della discordia: tutti si accapigliano, nella prima parte dell’anno, intorno al Documento di economia e finanza e, nella seconda parte, intorno al progetto di bilancio. Negli stati contemporanei, cosiddetti stati del benessere o stati-Provvidenza, la raccolta e la distribuzione delle risorse (entrate e spese) gioca un ruolo centrale.

 

Come si spiega? Non hanno altrettanto rilievo le funzioni di regolazione dello stato?

Trent’anni fa, un esperto che ha ricoperto quasi tutte le cariche pubbliche, fino a quella di ministro del Tesoro, Gaetano Stammati, in un libro di memorie, scrisse di aver avuto la proposta di diventare Ragioniere generale dello stato e aggiunse che “mi attraeva la possibilità di esercitare in prima persona la guida della grande macchina statale, che passava attraverso il bilancio” (Gaetano Stammati, La finanza pubblica italiana raccontata da un testimone (1945-1975), Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1990, p. 232).

 

Ma c’è qualcosa di più.

Infatti Stammati, qualche pagina più avanti, raccontava che la formazione del bilancio si svolgeva su tre fronti, le amministrazioni di spesa, il ministro del Tesoro, i parlamentari. Con i primi vi era un “dialogo tra sordi”: i ministeri richiedevano fondi, la Ragioneria generale rispondeva negativamente. Sul secondo fronte, il ministero delle Finanze faceva stime prudenti sul gettito, che occorreva discutere. Più difficile il rapporto con i parlamentari: con diplomazia e buon garbo si doveva motivare il parere negativo.

 

Molte cose sono cambiate.

Due, principalmente. Ora non c’è più il dualismo Tesoro-Finanze, perché i due vecchi dicasteri sono stati fusi, sia pure in maniera incompleta, in un unico ministero dell’Economia e delle Finanze. E il Parlamento ha acquisito un ruolo molto maggiore. Nei primi decenni di storia repubblicana, quelli ai quali si riferiva Stammati, era ancora forte la diffidenza di Einaudi e Vanoni nei confronti dell’iniziativa parlamentare in materia di leggi di spesa. Poi, si è arrivati al “vol-au-vent presidenziale”, di cui scrive per esperienza diretta Linda Lanzillotta in Il paese delle mezze riforme (Firenze, Passigli, 2018, p. 64), cioè del presidente della commissione Bilancio che, per far contenti tutti, a scapito della finanza pubblica, presentava un emendamento unico che veniva farcito con le norme e le spese più varie.

  

Ma la Ragioneria generale? Lei ha scritto molti anni fa che è il motore dell’intera amministrazione.

Senta che ha scritto Stammati, che è stato Ragioniere generale dal 1967 al 1972: “Un robusto gruppo di funzionari di solida preparazione, di indiscussa probità, un po’ disincantati dalle lotte di potere che si svolgono attorno e sopra di loro, conoscitori delle leggi e delle tecniche di bilancio, costantemente attaccati alle antiche tradizioni dei De Bellis e dei Balducci (uomini di cui Einaudi disse un gran bene), rispettosi delle direttive politiche loro impartite”. E continuava ricordando un bagaglio culturale “avvolto dalla grigia pratica della routine burocratica”, ma anche il rispetto per autorevoli ministri, ai quali dovevano dare “parere deferente ma negativo”. Essa “spingeva il suo vigile sguardo nel cuore di tutte le amministrazioni di spesa”, vagliando legittimità e merito delle proposte.

 

Come mai in un’amministrazione che lei spesso ha detto essere “in briciole” c’è un corpo di tal fatta?

Aspirazione antica, coltivata dal Luzzatti e realizzata nei primi anni del fascismo da Alberto De Stefani. Questo mise la Ragioneria generale al vertice di un sistema nervoso, composto di ragionerie centrali, nei ministeri, regionali e provinciali. Il sistema non è perfetto, perché sfugge quello che si definiva parastato (spesso costituito proprio per sfuggire alle ragionerie statali), ma che ha avuto capi inflessibili, come, negli anni del fascismo, De Bellis, l’unico forse che osasse dire di no a Mussolini, e di cui Stammati, nel libro sopra citato (p. 261), racconta il seguente scambio di battute col duce, che gli dice “Eccellenza, mi parlano molto male di voi”, con la risposta “Duce, quando vi parleranno bene di me, dovrete licenziarmi”.

 

Da dove deriva tutto questo potere, oltre che dal fatto che il “sistema nervoso” giunge a tutto il settore pubblico statale?

Dalla “bollinatura”, che consiste nell’apposizione di un timbro che certifica la copertura finanziaria di qualunque atto che comporti spesa. Senza la “bollinatura” l’atto non andrà avanti. Singolarmente, solo nel 2017 questa, che è nata come una prassi e si è poi evoluta, è stata studiata (da Elisa D’Alterio, La “bollinatura” della Ragioneria generale dello Stato, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017). La prova del potere della Ragioneria generale sta nel fatto che, nel corso del tempo, più volte si è cercato di trasferirla al ministero del Bilancio, un dicastero creato per affidare a Einaudi la supervisione su entrate e spese (ministeri delle Finanze e del Tesoro): ci tentarono o pensarono Pella agli inizi degli anni Cinquanta, Tambroni alla fine degli anni Cinquanta, Ugo La Malfa all’inizio degli anni Sessanta, Andreotti negli anni Settanta, finché quest’ultimo, divenuto presidente del Consiglio dei ministri, nel 1976, nominò il ragioniere generale suo capo di gabinetto e scrisse nel diario “Vincenzo Milazzo, Ragioniere generale dello Stato, ha accettato di esser capo di gabinetto alla Presidenza. E’ una garanzia e una indicazione” (Giulio Andreotti, Diari 1976-1979, Milano, Rizzoli, 1981, p. 29; si veda anche p. 25, dove nota che “una delle cose più buffe dello stato italiano” era che il ministro del Bilancio non preparava il bilancio).

 

Una delle ragioni dell’importanza del bilancio e, quindi, della Ragioneria generale, che lo gestisce, è costituita dall’altissimo debito pubblico italiano.

A proposito del quale voglio ricordare quel che ha scritto al termine della sua vita, dopo essere stato ministro del Tesoro, Guido Carli: “Il permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 387).

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