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La divisione dei poteri dello Stato spiegata a chi non la vuole capire

I veri confini del potere esecutivo e un paradosso moderno: è l’Unione europea che rafforza i governi italiani

Professor Cassese, Salvini ha dichiarato il 25 gennaio 2019: “E’ grave che un potere dello Stato intervenga nelle prerogative di un altro potere dello Stato”; e, poi, “una scelta politica può piacere o non piacere, ma va rispettata. La domanda è: può un ministro fare ciò che ha promesso agli elettori o deve decidere qualcun altro?”. Gli stessi concetti sono stati ripetuti nella memoria difensiva al Tribunale di Catania l’8 febbraio 2019 e nelle scomposte reazioni alla decisione del gip di Agrigento: “Togliti la toga e candidati con la sinistra” (4 luglio 2019).

 

Affermazioni azzardate, rivelatrici di scarsa conoscenza dei meccanismi dello stato e di poca logica. I poteri sono divisi proprio perché l’uno possa interferire nell’esercizio dell’altro (Montesquieu l’ha scritto nel 1748, nel volume su “l’esprit des lois” “impedire”). Se non fosse così, perché l’ordinamento prescriverebbe l’autorizzazione della Camera di appartenenza del ministro per sottoporlo a processo? C’è una evidente assenza di attenzione per l’ordine repubblicano che regola il potere esecutivo.

 

Un potere debole in tutti gli anni della storia italiana.

Sì, per la breve durata dei governi. Ne abbiamo avuto, contando tutti gli anni dall’unificazione, tre volte più della Germania, nonostante che questa sia stata unificata un decennio dopo l’Italia. Le ricordo quel che ha scritto Romano Prodi dopo il suo primo incontro con Helmut Kohl: “Accompagnandomi alla macchina, mi sorrise e poi, con l’aria da gattone, mi congedò dicendo: ‘Bell’incontro, per carità. Ma chi verrà la prossima volta?’”(Romano Prodi, Missione incompiuta. Intervista su politica e democrazia, Roma – Bari, Laterza, 2019, pp. 93-94). Questa discontinuità dei governi, nei primi cinquant’anni della Repubblica, è stata compensata dalla continuità di un partito al governo, la Democrazia cristiana, e dal fatto che alcuni notabili di quel partito continuavano a “svolazzare nei vari ministeri” (come scrisse Antonio Segni in una lettera a Emilio Colombo il 16 luglio 1960: la lettera è riprodotta in A. Segni, Diario (1956-1964), a cura di S. Mura, Bologna, il Mulino, 2012, p. 183). Paradossalmente, ora è proprio l’Unione europea che rafforza i governi italiani, per la sua polisinodia, che non considera se un governo italiano è debole, sta per cadere, gestisce solo gli affari correnti: quel che conta è che l’Italia sia rappresentata. E questo vale anche nel caso di un governo nel quale siano i ministri che abbiano scelto il capo del governo, invertendo l’ordine costituzionale secondo il quale è il presidente del Consiglio che propone al presidente della Repubblica i ministri.

 

Ma altri fattori della debolezza governativa sono il logoramento dei processi di decisione e il difficile rapporto con i collaboratori ministeriali.

Sì perché la politica governativa è fatta di grandi decisioni, ma anche di piccoli aggiustamenti, di compromessi, di dilazioni sapienti, per tener conto delle molte spinte e pressioni. Ed è qui che la macchina fa acqua. Anche perché c’è stata una politicizzazione del vertice e dei gradi intermedi delle pubbliche amministrazioni, a causa della disgraziata introduzione dello spoils system e dell’idea che vi debba essere un rapporto fiduciario tra burocrazia e potere politico. Così il nuovo governante, quando arriva, non sa se può “fidarsi” dei collaboratori che trova, teme il “sabotaggio burocratico”, un timore che molti politici hanno. Prenda il caso del “riciclaggio” di parlamentari non rieletti, utilizzati nei gabinetti ministeriali.

 

Un segno di questa sfiducia è la tentazione di ricorrere a commissari.

Specialmente nel campo delle opere pubbliche, con l’altra tentazione di aggirare le norme in materia ambientale, paesaggistica, del patrimonio culturale. Gli organi straordinari, come i commissari, sono destinati a procurare altre delusioni. Per entrare in funzione, debbono apprendere il mestiere. Sterilizzano le amministrazioni ordinarie (come successe con la Cassa per il Mezzogiorno). Finiscono per rallentare, piuttosto che per accelerare.

 

E la separazione politica-amministrazione, introdotta nel 1992-1993?

Azzerata dallo spoils system, che precarizza la dirigenza, e quindi la pone in posizione servente (e va di pari passo con la sistemazione in ruolo dei precari, ai livelli inferiori). La contrattualizzazione dei dipendenti pubblici non aiuta, perché ha riprodotto nei contratti i vecchi vizi delle leggi sul pubblico impiego, e perché non serve per i casi estremi, quando si ritorna alla legge. In più il datore di lavoro è assente, l’agenzia statale è in mano sindacale.

  

Ma i difensori dello spoils system sostengono che c’era anche prima.

Andreotti ha scritto che De Gasperi scelse Francesco Miraglia come capo gabinetto “perché nessuno glielo aveva raccomandato” e si compiaceva delle qualità del generale Corsini, “un autentico militare che non ha conoscenze nel campo politico. Farà molto bene” (Giulio Andreotti, Diari 1976-1979, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 308 e 146).

   

Ma che cosa si fa per rimediare alla lamentata, costante insufficienza amministrativa?

I dipendenti guardano al loro “particulare”: Tito Boeri, allora presidente Inps, il 14 febbraio 2019, alla Repubblica confessava che un dirigente gli avrebbe detto: “Se mi dedico tutto al lavoro, non penso alla carriera”. La politica pensa a come sistemare in ruolo qualche decina di migliaia di nuovi dipendenti, per assicurarsene l’appoggio (anche il presidente della Regione Campania ha ripetutamente affacciato proposte del genere). I governi fanno senza sapere. Ne è un esempio la legge “concretezza delle azioni della pubblica amministrazione e la prevenzione dell’assenteismo”, che istituisce il Nucleo delle azioni concrete di miglioramento dell’azione amministrativa, per la redazione di un piano triennale, prevede ispezioni, rilevazioni, proposte (ma non c’era bisogno di una legge per fare tutto questo e il programma è di quelli formulati da chi non sa che cosa fare e non ha obiettivi). I sistemi di identificazione biometrica e di videosorveglianza, poi, dovrebbero rimediare all’assenteismo, la cui causa principale non è quella di chi marina l’ufficio con trucchi (per cui i dipendenti pubblici saranno d’ora in poi vigilati speciali, ma le assenze in ufficio ci saranno egualmente: sarebbe bastato leggere le indagini compiute in anni recenti sulle assenze nel pubblico impiego). Insomma, la legge si autodefinisce concretezza, ma oscilla tra l’astratto e il vuoto. Bisognerebbe concludere, con le parole di Andreotti: “E’ tanto difficile muovere qualcosa, in un paese che parla dal mattino alla sera di volontà di cambiamento e persino di rivoluzioni” (Giulio Andreotti, Diari 1976-1979, Milano, Rizzoli, 1981, p. 76).

 

I decreti legge sono però un punto di forza dei governi. Non tutti i governi del mondo possono legiferare, sia pure in casi di urgenza.

Un’osservazione che vale specialmente per l’ultimo periodo, nel quale, nonostante solide maggioranze (o forse proprio per questo) si fa ricorso sistematico ai decreti legge. In passato c’era il fenomeno, ma era limitato. Andreotti scriveva nel 1977: “Il ricorso ai decreti legge è stato sempre oggetto di critiche, talvolta infondate, talaltra no. In particolare quando le scadenze sono prevedibili si dovrebbe provvedere per tempo in via ordinaria. Ma i ministeri conoscono poco gli scadenzari e i ministri esibiscono sollecitazioni alla decretazione d’urgenza inviate da chi nelle Camere attacca il governo perché vi ricorre” (Giulio Andreotti, Diari 1976-1979, Milano, Rizzoli, 1981, p.71).