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“Così è nato il woke”. Il discorso di Peter Thiel per il Premio Burke

Il fondatore di PayPal parla dell'impatto del multiculturalismo politicamente corretto sull'istruzione negli Stati Uniti: “Ero a Stanford negli anni Ottanta quando cantavano ‘hey, hey, ho, ho, Western culture has got to go’”

Nel 1995 Peter Thiel, che quattro anni più tardi avrebbe fondato PayPal, pubblicò il libro “Diversity Myth: Multiculturalism and Political Intolerance on Campus”, una delle prime esplorazioni dell’impatto debilitante che il multiculturalismo politicamente corretto ha avuto sull’istruzione superiore e sulla libertà accademica negli Stati Uniti. Già allora, in nome della diversità, molte importanti istituzioni accademiche e culturali stavano lavorando per mettere a tacere il dissenso e soffocare la vita intellettuale. Thiel fu uno dei primi a capirlo e ad analizzare il fenomeno. Questo è il discorso che Thiel ha tenuto per il Premio Edmund Burke della rivista New Criterion. Sono stato coinvolto in un buon numero di guerre culturali per un decennio, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando ero a Stanford. Ho fondato un giornale studentesco conservatore, The Stanford Review, nel 1987. Ovviamente nel campus universitario c’era molta follia, stupidità e malvagità di cui potevamo riferire. Parte di quella follia, tuttavia, ebbe una risonanza molto più grande.

Uno dei grandi dibattiti a Stanford alla fine degli anni Ottanta riguardava il corso di Cultura occidentale (ancora nel 1970, 10 delle 50 principali università avevano un corso obbligatorio di Civiltà occidentale, mentre 31 lo offrivano come facoltativo. Oggi, secondo il rapporto The Vanishing West, nessuna università offre più simili corsi. A Yale hanno eliminato il corso di Storia dell’arte perché “troppo bianco”, la Loyola University di Chicago ha dato la possibilità di saltare il corso di Civiltà occidentale e iscriversi invece a “corsi di diversità”, all’Università della California il corso su Shakespeare e Milton è stato sostituito con “Gender, razza e sessualità”). Era una specie di programma formativo di un anno che tutte le matricole di Stanford dovevano seguire. Jesse Jackson ha guidato una protesta a Stanford con il famoso canto, “Hey, hey, ho, ho, la cultura occidentale deve sloggiare”. Ho pensato di poter iniziare con una lettura dal libro che David O. Sacks e io abbiamo scritto qualche anno dopo, “The Diversity Myth” (1995). Il primo capitolo parla dell’abbandono dei grandi libri a Stanford e descrive uno dei titoli scelti per sostituirli sull’onda delle proteste. E’ un’opera teatrale di Aimé Césaire intitolata “A Tempest”, una rivisitazione della “Tempesta” di Shakespeare in cui Calibano diventa una specie di eroe rivoluzionario. Il mago Prospero è ritratto come un malvagio imperialista. Il libro culmina in una filippica di Calibano e mi piacerebbe leggerne poche righe perché penso che catturi l’atmosfera di quei tempi: “Il vecchio mondo sta cadendo a pezzi! E comunque… hai la possibilità di farla finita: puoi andare a farti fottere”.

Quindi la presunzione che io e il mio amico David abbiamo avuto in “The Diversity Myth” era che tutto ciò che serve è descrivere cosa sta succedendo nella torre d’avorio. E, naturalmente, gran parte del libro documenta cose incredibilmente sciocche: un incarico per creare un giornale azteco; lo spostamento dei requisiti del curriculum per includere corsi come “Problemi di autodifesa per le donne” e “La cultura americana del bere e della droga”, quest’ultimo culminato in una festa di classe in cui gli studenti sono stati incoraggiati, ovviamente, a bere e a drogarsi; iniziative per la vita studentesca come il “Condom Rating Contest”, in cui i profilattici venivano valutati in categorie come “gusto” e “senso di sicurezza”. Quando ripenso a “The Diversity Myth” tre decenni dopo, quasi ogni punto che abbiamo sollevato era giusto, il che è sia gratificante che deprimente. Allora, multiculturalismo era il termine generico per questa ideologia mostruosa; oggi si definisce woke e si batte per “diversità, equità e inclusione”. Il problema si è solo metastatizzato. Non abbiamo fatto la differenza. C’è qualcosa che ci è sfuggito in questo dibattito? Cosa sta veramente succedendo? Non esiste vero multiculturalismo; è monoculturale. L’agenda non è non-occidentale; è anti-occidentale. A Stanford, ad esempio, le iniziative multiculturali sono state finanziate tagliando i budget dei dipartimenti di lingue straniere. Non hai diversità quando riunisci persone che sembrano diverse ma parlano e pensano allo stesso modo. E’ come uno shibboleth, una specie di idolo o falso dio che la nostra società adora. E’ straordinariamente difficile da definire e infatti gli amministratori di Stanford incaricati di definire il multiculturalismo negli anni 90 lo hanno fatto nei termini più vaghi immaginabili, come a voler proteggere i misteri del culto. Ciò che è chiaro è che oggi siamo accampati all’altare della diversità, venerandola e onorandola come la cosa più alta. Quindi la domanda che dovremmo porci è questa: nell’adorare la diversità, nel farne il valore più alto, cosa ci manca? E’ una specie di spettacolo di magia in cui guardi il mago e non noti il gorilla che salta su e giù dietro il palco? La risposta è che quello che sta succedendo è molto stupido, ma la stupidità ci sta distraendo da cose molto importanti.

Questa è la natura del male. La diversità diventa una sorta di divertissement, distogliendo la nostra attenzione dalle cose che contano davvero. Voglio suggerire che, almeno a livello di politica pubblica, tutti questi dibattiti sulla diversità, la politica dell’identità, il multiculturalismo, la religione woke, ecc., dovrebbero essere trattati come dibattiti sui senzatetto. Quando i senzatetto sono costretti a partecipare a ogni conversazione politica, ciò porta a ragionamenti tortuosi e senza uscita: non sistemeremo mai i senzatetto fino a quando non sistemeremo le scuole, ma non sistemeremo mai le scuole, la polizia o persino il strade finché non risolviamo i senzatetto. Diventa una scusa per tutti gli usi per ignorare ciò che sta realmente accadendo. Permettetemi quindi, in rapida successione, di elencare alcune delle questioni più profonde oscurate dalla nostra ossessione per la diversità. Anche la scienza è diventata in qualche modo una cosa molto, molto malata. La maggior parte di noi immagina uno scienziato come un ricercatore indipendente che pensa da solo, e questa figura può ancora apparire nei libri per bambini, ma in pratica oggi comporta principalmente l’applicazione di una serie di dogmi. E’ il classico cui bono: chi trae effettivamente beneficio da questa roba? Come si svolge tutto questo? Una critica marxista della vecchia scuola a ciò che chiamiamo “marxismo culturale” direbbe che tutta questa politica dell’identità, l’intera agenda della “diversità”, è servita solo a dividere la classe operaia. La cosiddetta religione woke è una perversione della tradizione giudaico-cristiana, ma nondimeno strettamente legata a essa.

Quindi, quando la descriviamo come una religione tout court, le rendiamo un po’ un disservizio: dobbiamo essere molto più specifici sui modi in cui emula o differisce dal cristianesimo. I tipi progressisti, teologicamente liberali, sostenuti dal sostegno istituzionale e intenti a dispensare la loro visione della giustizia sociale, sono diventati simili ai cattivi cambiavalute nel tempio. Negli anni 80 la correttezza politica era qualcosa che i conservatori usavano come epiteto per descrivere gli imbecilli squilibrati di sinistra. Se torni agli anni 70, in realtà era usato da persone molto progressiste come termine di autocompiacimento. Ma se torni agli anni 50 e togli tutte le connotazioni accumulate nel tempo, significava che seguivi le indicazioni di Mosca come membro del Partito comunista con la tessera. L’impulso totalitario, con le sue straordinarie richieste alla coscienza individuale, è insito nella nozione stessa di correttezza politica. Dovremmo pensarci. Lottare per la diversità, in particolare la diversità di pensiero, può essere positivo. Ma chiunque apprezzi la libertà – conservatori, libertari, liberali classici e gli altri – non deve mai perdere di vista la battaglia cosmica contro il comunismo ateo. Il mio obiettivo qui è stato quello di concretizzare tutte queste preoccupazioni, non con lo scopo di fornire risposte, ma di porre domande. Quindi, in conclusione – e questa è una semplificazione, forse una distorsione, ma penso che voi sappiate cosa intendo – sarebbe più salutare che, ogni volta che qualcuno sente la parola “diversità”, pensi al Partito comunista cinese.

(Traduzione di Giulio Meotti)

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