L'assalto a Capitol Hill, al congresso Usa, lo scorso 6 gennaio da parte dei sostenitori di Trump (LaPresse)

Un foglio internazionale

La storia non è finita

Dialogo fra Fukuyama e Holland su Trump, occidente e Cina, liberalismo e populismo Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere

Il titolo del tuo ultimo libro, un libro di interviste, si intitola After the End of History (Dopo la fine della storia). Questa è un’allusione a quello che credo continui a essere il tuo libro più famoso e mi domando: la fama di quel libro è un peso? Ti senti come una rockstar a cui i fan chiedono di suonare la hit più importante?”. Così inizia la conversazione sullo Spectator tra lo storico Tom Holland e il politologo Francis Fukuyama. “Lo sai – risponde Fukuyama – questo tema emerge solamente quando faccio delle interviste con dei giornalisti che vogliono affrontare dei temi generici”.

 

TH: “Visto che questo è il titolo del libro, possiamo parlare di cosa intendi per la ‘fine della storia’. Pensi che sia una sorta di processo piuttosto che un fine?”.
FF: “Innanzitutto, non è una mia espressione, viene da Hegel, e anche Karl Marx pensava alla fine della storia. Per tutti e tre la storia non significa solamente gli eventi ma piuttosto la modernizzazione e lo sviluppo. La fine della storia, così come è stata posta da Hegel e Marx, accettava il fatto che vivessimo in un mondo in cui le cose cambiano con il tempo, quindi la domanda è: dove ci sta portando questo processo? La risposta di Marx era: verso un’utopia comunista. Credo che Hegel avesse capito e sostenuto che questo avrebbe portato a una sorta di società liberale, e la mia tesi era semplicemente che la visione hegeliana era più plausibile di quella marxista”.

 

TH: “Una delle cose che mi ha colpito del tuo libro è la tua onestà. Tu dici: ‘Direi che è successo più in tempi recenti (…) che negli ultimi vent’anni’. Stavi pensando all’elezione di Trump?”.
FF: “Sì, e anche a ciò che l’elezione di Trump ha rivelato sullo stato della democrazia americana. Io e tanti altri politologi crediamo che la democrazia sia un processo irreversibile e che una volta ottenuta, il gioco è fatto. Abbiamo visto uno sfaldamento in democrazie più giovani come l’India o l’Ungheria ma il fatto che ci sia stato uno sfaldamento negli Stati Uniti è davvero qualcosa che non avrei potuto prevedere trent’anni fa”.

 

TH: “Dici che Trump si è rivelato perfino peggio di quanto avevi anticipato?”.
FF: “Beh, credo che il suo peccato peggiore sia stato avere contestato la legittimità delle elezioni dell’anno scorso. Credevo che prima o poi si sarebbe arreso davanti alla realtà, ma dopo otto mesi questo non è ancora successo. La grande virtù di una liberal-democrazia è che fornisce uno strumento per trasferire il potere in modo pacifico, e gli Stati Uniti hanno criticato molte democrazie difettose in giro per il mondo per questa mancanza. Credo che la nostra autorità morale per continuare a esprimere questa critica sia stata danneggiata seriamente. (…)”.

 

TH: “Credo che ci sia un’altra grande domanda che pervade la tua tesi, legata all’ascesa della Cina. In che misura la crescita della Cina, e il genere di autocrazia tecnocratica che essa rappresenta, mettono in dubbio il tuo ottimismo?”.
FF: “Se la Cina rimane stabile, se continua a crescere e a superare le democrazie liberali occidentali, allora credo che questo danneggerebbe seriamente la mia ipotesi. Non penso che siamo già a questo punto, ma ho sempre creduto che questa fosse l’unica alternativa plausibile alla democrazia”.

 

TH: “Pensi che arriverà un momento nei prossimi dieci, venti o trent’anni in cui ti troverai a dire ‘ho sbagliato’?”.
FF: “Beh, sì, non so se dovrei scegliere una data ma direi che tra un paio di decenni, se gli Stati Uniti continuano il loro declino e la Cina continua a crescere, sarò costretto a dire che esiste un’alternativa, ed è piuttosto potente. E a quel punto penso che molti altri paesi inizieranno a emulare la Cina – alcuni lo hanno già fatto. All’apice del potere americano tra il 1989 e il 2008, la sfida era principalmente economica, politica, militare e culturale. Finora la sfida della Cina è stata soprattutto economica, e sta iniziando a essere anche militare – ma se parliamo di società e cultura, c’è ancora un grande distacco. Non vediamo milioni di rifugiati che bramano per andare a vivere in Cina. Il suo appeal come società resta molto limitato, anche se sta recuperando terreno. Questo assottigliamento sta avvenendo anche nella sfera politica, dato che la Cina non sembra patire le sorte di disfunzioni di cui l’America è vittima. (…)”.

 

TH: “Devo dire che da europeo e in particolare da britannico, ho trovato il tuo libro molto ottimista nei confronti dell’Europa! Mi chiedo, non è che il tuo grande ottimismo ha a che fare con il fatto che i tuoi antenati vengano dal Giappone? Non puoi dunque essere accusato di essere un suprematista bianco?”.
FF: “Sto scrivendo un libro in cui difenderò l’universalismo liberale occidentale dai vari filoni della Critical Race Theory. La vera domanda è quanto sarà profonda questa demoralizzazione? Il motivo per cui queste idee sono più forti negli Stati Uniti è dato dall’importanza del tema razziale nella storia americana. Chiaramente, l’Islam occupa un ruolo simile nella Gran Bretagna di oggi, ma penso che siamo entrati in un periodo un po’ pazzo per quanto riguarda i discorsi sulla razza negli Stati Uniti. Questa è sicuramente una sfida”. I due autori parlano del grande impatto delle idee americane nel resto del mondo, anche in paesi che non hanno nulla a che spartire con gli Stati Uniti.

TH: “Credo che da un punto di vista americano, questo sia piuttosto incoraggiante. Anche a dispetto di tutta questa turbolenza, quando l’America starnutisce tutto il mondo prende il raffreddore?”.
FF: “Sì, il problema è che gli unici a prendere il raffreddore sono le altre democrazie. Se riuscissimo a infettare la Cina e la Russia con questa roba, credo che sarebbe più utile”.

 

TH: “Supponiamo di arrivare alla fine della storia. Beh, diciamo di essere già lì. Non c’è il rischio che sia noiosa e che subentri un senso di anomia? Non credi che questo sia essenzialmente ciò che sta succedendo?”.
FF: “Nel saggio originale, scrivevo che ‘se la gente non può più lottare contro l’ingiustizia allora lotterà contro la giustizia perché ciò che vogliono fare è lottare’. Penso che in tanti modi questo si sia verificato negli eventi recenti negli Stati Uniti. I clown che hanno attaccato il Campidoglio il 6 gennaio non erano disadattati, non erano metalmeccanici disoccupati, non erano marginalizzati, ma erano delle persone benestanti con un lavoro alle spalle. Ma penso che passassero tutto la loro vita a guardare film d’azione o a giocare ai video game e volevano imitare quella roba lì”.

 

TH: “La Brexit è un’ombra pervasiva nel tuo libro. Viene associata a Trump e ai temi del populismo. Molti critici pensano che sia la stessa cosa: è stata venduta una bugia a delle persone stupide, che ora vivono con le sue conseguenze. Questo è il tuo punto di vista sulla Brexit?”.
FF: “Se fossi stato un cittadino britannico avrei votato per restare nell’Unione europea – tuttavia, come negli Stati Uniti, penso che chi ha votato per la Brexit sia stato frainteso. I liberal americani esprimono lo stesso disprezzo per chi ha votato per Donald Trump, alimentando il populismo. Questo atteggiamento è esattamente ciò che gli elettori populisti non tollerano dell’élite. (…)”.

 

TH: “Nel tuo libro si ritrovano molte delle tesi usate dai brexiteers. Tu dici che non puoi avere la democrazia senza l’identità nazionale. Ma esiste una tensione nelle tue idee tra una sorta di universalismo che richiede la dissoluzione delle identità nazionali particolari, e il riconoscimento che la vera democrazia, la liberal-democrazia, dipende dal mantenimento dei confini?”.
FF: “No, questo non è come vedo il problema. Non credo che esista un’identità universalista. Non puoi essere un cittadino del mondo. Questa è solo una fantasia e credo che, essenzialmente, le democrazie moderne necessitino di un senso di identità a livello nazionale e l’indebolimento di queste identità sia un fatto negativo. Il problema con l’Ue è molto particolare. Non c’è un grande attaccamento emotivo all’identità europea, e la gente continua a identificarsi innanzitutto con il proprio stato membro. Di conseguenza, penso che ogni stato membro deve lavorare per adattare l’identità nazionale alla diversità della propria società. Questo è un problema nell’Europa continentale piuttosto che in Gran Bretagna o nei paesi anglofoni che per vari motivi sono stati più accomodanti verso la diversità. (…)”.

 

TH: “Pensi che l’eredità del liberalismo, la struttura del liberalismo, può essere una grande tenda di cui possono fare parte persone che vengono da diverse tradizioni culturali?”. FF: “Spero di sì. Credo che, data la globalizzazione, molte società saranno eterogenee da un punto di vista religioso, culturale, etnico eccetera, quindi dobbiamo trovare una formula per fare funzionare tutto ciò. Credo che sia così, perché non abbiamo leader adeguati a fronteggiare questa situazione. Ci sono molte ragioni per essere fieri di vivere in una società del genere ma negli ultimi anni non siamo stati in gradi di articolare bene questa difesa”.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi)

 

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