il figlio

"Tua figlia Anita". La resa dei conti più intima, con le chiavi di casa strette fra le dita

Sandra Petrignani 

Un romanzo sulla morte, senza niente di eroico e nemmeno di disperato. Forse ciò che l’autore vuol mettere davvero a fuoco è il senso di mediocrità che la vita, forse ogni vita, gli comunica. Il sorprendente esordio narrativo di Paolo Massari

Sorprende che un trentacinquenne al suo esordio narrativo componga un romanzo come Tua figlia Anita (Nutrimenti, 170 pagine, 17 euro). E non perché sia un romanzo sulla morte, tema che intriga a ogni età, ma perché la morte raccontata da Paolo Massari non ha niente di eroico e nemmeno di disperato. E’ una morte qualsiasi, una delle tante morti comuni che avvengono tutti i giorni, quasi senza conseguenze si potrebbe dire, se non un tenue rimpianto in chi sopravvive. Una morte in famiglia, famiglia come ce ne sono tante intorno alla coppia, una coppia come tante che è al centro della storia. A morire è Anita, di cancro, e suo marito Giacomo s’incarica di raccontarla e, nel farlo, dice il presente della malattia e il passato della giovinezza, dell’amore, delle incomprensioni, dei tradimenti, delle relazioni familiari e amicali che formano una vita. 

 

Un altro aspetto strano, che subito incuriosisce, è perché poi Giacomo questa storia così anonima si metta a raccontarla a un destinatario che non sembra godere di nessun suo particolare interesse: il padre di Anita. E in effetti il libro è una lunga lettera mandata da un genero al suocero. Suocero che, stando alle parole di Giacomo, si rivela un padre molto manchevole verso la più piccola delle sue figlie, Anita appunto, con la quale ha intrattenuto un rapporto distante, fatto più di incomprensioni che di affetto. E allora? Oltretutto questo padre è morto anche lui, si scopre ben presto. Che senso ha scrivere a un morto di una figlia non particolarmente amata, morta poco dopo lei pure?

La scrittrice Romana Petri, che firma in copertina un breve, ammirato giudizio, riassume così la trama: “Una resa dei conti senza pistole, fatta di voci e di richiami lontani” e definisce la lingua di Massari “emotiva ma asciutta”. Il minimalismo ricco di echi letterari di questa lingua è effettivamente una delle attrattive del libro. C’è sempre qualcosa di depistante, che non permette al lettore di mettere a fuoco i sentimenti dei personaggi. Perché mentre li descrive, Giacomo li giudica, e li giudica male. Direi anzi che, alla fine, l’impressione di chi legge la lettera di questo trentacinquenne calatosi nei panni di un ultracinquantenne (la generazione dei suoi genitori più o meno) è di profonda severità e scontentezza. E’ la resa dei conti – come la chiama Romana Petri – di chi ha molto da rimproverare all’idea di famiglia che gli è stata tramandata, all’idea di relazione e di società. Ma molto ha da rimproverare anche a sé stesso nei confronti di un’ipotetica moglie che qui veste i panni di Anita: “Averle detto troppo poco che in fondo non è stato poi così male, vivere insieme. Anche se abbiamo provato pena, se siamo stati mediocri, stanchi”.

Ecco, forse ciò che l’autore vuol mettere davvero a fuoco è il senso di mediocrità che la vita, forse ogni vita, gli comunica. Passioni che si capovolgono nel loro contrario, convivenze che si rivelano basate soltanto su pazienza e sopportazione, genitori annoiati dai figli e figli scontenti dei genitori. Certo poi, quando si perde qualcuno che accompagnava i nostri giorni, resta un senso di vuoto incolmabile, il disagio di non sapere cosa fare dei suoi vestiti nell’armadio, un vago sentimento di ingiustizia che si vorrebbe colmare, magari scrivendo una lettera come questa al fantasma di un padre limitato e incoerente. Senza risolvere nulla. Ma tanto, cosa c’è da risolvere quando si contempla il nonsenso di tutto? Come nell’immagine della coerentissima chiusa, che si può svelare perché non fa che confermare quanto è stato raccontato fin lì senza nessuna indicazione sul futuro di Giacomo: “Ho fatto le scale lentamente, credo di averci messo un’eternità. Davanti alla porta di casa nostra sono rimasto fermo, con le chiavi strette fra le dita”. 

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